I segni ci sono, li abbiamo davanti agli occhi, ma spesso siamo ciechi e non sappiamo guardare, o anche se vediamo ci viene il "dubbio" che ciò non è possibile. Molto bello questo Te Deum di ringraziamento di Marina Corradi, chiedo anche per me, pur senza girovagare per il mondo, di saper guardare ciò che mi accade ogni giorno.
di Marina Corradi, tratto da [Tempi.it] 7 gennaio 2011
Ho ancora davanti agli occhi le nuvole gonfie che dall’Atlantico approdano sulla Galizia, nel nord della Spagna. Il cielo sopra al Camino Inglés, quello che da Ferrol porta a Santiago. Camminavamo in tanti, e io con i figli e il marito, spesso sotto una pioggia sferzante, nel vento. Ci si alzava che ancora era buio, ci si incamminava nel primo chiarore dell’aurora e avanzavamo dentro un orizzonte solitario e verdissimo – pascoli, boschi, rare case. Mi piaceva guardare quelle nuvole tonde, matronali, e pensare che venivano dall’oceano – la loro pioggia fresca, annuncio di una nuova primavera sull’Europa. Mi piaceva camminare tutto il giorno, né in fretta né adagio, seguendo un cammino segnato, scavato dai passi dei pellegrini nei secoli. Io che ho sempre pensato che si vive da soli, ho scoperto che è bello camminare insieme, quando si condivide una meta. Quest’anno per me di eventi non eclatanti, di abitudini care e di modesti, affrontabili dolori, resta sotto il segno forte del Cammino: quei pochi giorni a Pasqua, intensi più di mesi. E non posso scordare, nel mio personale Te Deum per l’anno 2010, l’apparire improvviso davanti a noi della meta, della cattedrale. Mi è sembrata cosa non umana, ma montagna invece, castello di rocce e di guglie. Che cose straordinarie sanno fare gli uomini, ho pensato, quando sono innamorati di Dio.
È stato a causa dello stupore di Santiago che poi nell’estate, da giornalista, sono andata a cercare i luoghi del sacro in Europa. Come se mi fosse venuta fame di segni che marchino ancora i nostri passi affannati. Voglia di segni e voglia di cammini di pellegrini. A Montserrat ho visto gli eremi sulla montagna sopra il santuario, dove i monaci vivevano di bacche e radici: con che immensi orizzonti, però, davanti, nella pianura aperta verso il Mediterraneo. Di cosa veramente vivevano gli eremiti di Montserrat?, mi sono chiesta. E sono ridiscesa verso Barcellona, certa che esiste una pienezza che a me sfugge, e che tuttavia occorre cercare. Cercare, domandare bisogna. Siamo nati per questo.
A Czestochowa mi sono alzata all’alba, per vedere l’istante in cui la cortina d’argento che copre la Madonna viene alzata, al suono gioioso delle trombe: per vedere l’istante in cui la folla muta che gremisce il santuario cade in ginocchio, con un tonfo sordo sulla pietra – come un popolo davanti alla sua regina. Ho invidiato quelle facce forti di polacchi, gli occhi fissi sulla loro signora. Mi ha commosso il santuario che sembra una fortezza, e che ha avuto ragione, nei secoli, su tutti gli eserciti. Quella Madonna forte e insieme pietosa, con gli occhi dolenti di madre.
Una meraviglia che non basta mai
Segni, quanti ne sono stati lasciati nelle nostre strade, nella storia, per chi voglia cercarli. Lough Derg, all’estremità dell’Irlanda: dove una volta finiva il mondo conosciuto c’è il più antico santuario irlandese. Anche qui le nuvole dell’oceano, più cupe però, ferrigne, sulle acque scure di un piccolo lago, su rocce nere lisciate dai passi dei pellegrini. A piedi nudi e in ginocchio, digiuni, sotto la pioggia, di cosa domandano perdono i pellegrini a Lough Derg? Forse anche del male non fatto da loro, forse anche del nostro – chini sulle tombe dei monaci medioevali, sopra la grotta dove san Patrizio sfidò e vinse l’inferno.
E invece mi è sembrato un trono, un altare Guadalupe, nella solitaria Estremadura: il santuario dell’età d’oro della Spagna, dove Cristoforo Colombo andò a rendere grazie della scoperta delle Americhe. Nostra Signora di Guadalupe, la cui prima icona, sepolta al tempo dell’avanzata dei Mori, venne ritrovata da un pastore; tradizione simile a quelle della Virgen di Montserrat e di altri santuari nell’Est Europa. Il segno nascosto, dimenticato, che riappare. Che siano i segni che ci inseguono, ansiosi di un’epifania, e non noi che inseguiamo loro? Ho visto tanto, quest’anno, da doverne essere grata; grazie, per questo anno colmo di segni.
Però, il problema è che poi a me nessun segno basta. Vedo, mi meraviglio, e torno com’ero. Ho il dubbio nel sangue; mi è stato insegnato che “vero” è solo ciò che si può scientificamente provare e misurare. Cammino per Milano, leggo i giornali, guardo la tv, e tutto mi sembra così chiassoso e però muto. Dov’è il Dio con noi? Vorrei voltarmi e poterlo toccare. Invece sul metrò contemplo le facce assenti, vuote, come se ciascuno fosse in verità solo al mondo.
In autunno ho ripreso a viaggiare. (Forse, mi dico, tanta fatica è inutile, e basterebbe guardare bene vicino). Sono andata in Boemia a vedere la nuova fondazione delle trappiste di Vitorchiano, in un paesino sperduto, che sulla mappa non c’era. Risento ancora le voci limpide che cantano le lodi. Sbalorditivo, quel seme gettato in una terra dove di Dio quasi si è persa la memoria. Una domanda ti punge la notte, nel gran silenzio di questi boschi disabitati: ma folli sono loro o sono io? E poi Praga, e Colonia. Nelle case dei preti della Fraternità missionaria San Carlo mi pare sempre d’essere a casa mia. Anche questi ragazzi in giro per il mondo, che cosa strana, borbotto fra me per le strade di Colonia.
Attorno al Duomo ci sono i mercatini di Natale. Vin brulé, würstel, Santa Klaus e renne. Alzo gli occhi sull’unica bancarella di un rigattiere. Ha di tutto, ogni tipo di ciarpame. E anche un vecchio polveroso crocefisso, un povero crocefisso di legno. Come smarrito. Me lo porto a casa. Lo appenderò in camera, per poterlo vedere al mattino quando apro gli occhi. Ho bisogno della sua silenziosa compagnia. (Poi, per caso leggo che Edith Stein prese i voti nel Carmelo di Colonia, e qui scelse di chiamarsi Teresa Benedetta della Croce. La croce, come quella che mi sono portata a casa da Colonia).
Quella manovra miracolosa
Per onestà, infine, in questo Te Deum dei segni, devo raccontare una piccola singolare storia che mi è successa in Boemia. Avevo noleggiato un’auto e mi avevano rifilato chissà perché una monovolume pachidermica. Non avevo trovato il freno a mano, ma pazienza, m’ero detta, a cosa vuoi che mi serva il freno a mano. Le strade erano deserte e mal segnalate. Finalmente, dopo ore, un cartello, “monastero”. Poco dopo un bivio, e nessuna indicazione. Prendo a sinistra. La strada sale e rapidamente si fa un tratturo stretto, scivoloso, pieno di fango. Col mio bisonte non riesco né a far retromarcia né a girare. L’unica chance è entrare in un campo e fare inversione. All’atto di risalire sul sentiero le ruote però girano a vuoto nel fango. Più accelero e più la macchina si impianta. Infine si mette di traverso. Tento di tutto, rincorse, sterzate, nulla. Mi servirebbe il freno a mano, ma non è dove dovrebbe essere, e il libretto d’istruzioni, scopro, è solo in ceco. Lo getto via con parole irriferibili. Cosa potrei mai dire a quelli del carro attrezzi? Venite a prendermi, sono impantanata in un bosco, ma non so dove? Intorno, per chilometri non c’è una casa, e viene buio presto, in novembre, in Boemia. Disperata: e adesso? Spengo il motore, affranta. E va bene, mi dico, altro non mi rimane che appellarmi alla Madonna. «Se mi tiri fuori di qui, prometto che la smetterò con il mio dubbio. Lo prometto, la smetterò con i miei se, i però, i forse». Rimetto in moto, schiaccio l’acceleratore. Il mio bisonte come per incanto si raddrizza, agevolmente sale sul sentiero, senza alcuno sforzo, come fosse su un’autostrada. Lo sbalordimento è tale che mi fermo: com’ è possibile, che cosa è stato? Senza volere getto lo sguardo al retrovisore: nessuno. Angeli, forse?
A Milano giorni dopo, cercando un libro su Edith Stein, in libreria mi è caduto l’occhio su un libro di Romano Guardini sui “segni”. Il mio Te Deum è per questa catena di segni, inanellati uno dopo l’altro. Mi piace, in fondo, questa logica, così antica, così desueta – quasi blasfema, nello scientismo nichilista che ci domina. La sensazione di stare andando contro la corrente; meravigliata e curiosa, come studiando una lingua nuova. Altra, dal chiasso muto che ci assorda.