Vincent Van Gogh - Notte stellata sul Rodano - particolare (Musée d’Orsay, Parigi)

10 dicembre 2012

Presepe: Gesù è nato per tutti!!!

Grazie ad un'amica ho recentemente scoperto l'esistenza del presepe più grande del mondo (così dicono) e pensate un po' si trova in Liguria nelle splendide Cinque Terre e precisamente nel piccolo borgo di Manarola. Vi domanderete: ma come può un piccolo paesino realizzare un grande presepe?

Ho pensato di segnalarvelo perché io stessa sono andata a Manarola diverse volte, ma nessuno mi ha mai parlato di questa splendida opera, al che ho dedotto che sia alquanto sconosciuta, così come saranno sconosciuti migliaia di presepi conosciuti solo dagli abitanti del luogo. A questo proposito vi invito a segnalarli alla mia amica Annarosa su facebook: https://www.facebook.com/events/253322031463685/?notif_t=plan_user_joined



Tutto inizia 36 anni fa grazie alla creatività del signor Mario Andreoli che ha ideato e costruito il presepe. Il signor Mario ora è in pensione, ma nel 1976 quando iniziò quest'opera lavorava alle ferrovie, ha praticamente dedicato una vita alla sua realizzazione,  dopo 30 anni è stato in grado di coprire quasi tutta la collina delle Tre Croci di Manarola, ben 4000 metri quadri di vigne terrazzate. Nel 2007 finalmente è stato inaugurato e subito lo hanno giustamente inserito nel Guinness dei primati.  Pensate che per realizzarlo il sig. Andreoli ha usato circa 8 km di cavi elettrici, 15mila lampadine, circa 300 figurini a grandezza naturale tutti realizzati con materiali inutilizzati o riciclati e, giusto per restare in tema di ecologia, nel 2008 il presepe stesso è diventato ecologico, perché è stato costruito un impianto fotovoltaico appositamente per illuminare il presepe.

Ogni anno il presepe luminoso viene inaugurato nel giorno dell'Immacolata Concezione l'8 dicembre, ma quest'anno si è rischiato di non poterlo fare a causa della salute del signor Mario che risente degli acciacchi dell'età, ma anche a causa di un recente ricovero ospedaliero che lo ha debilitato.
Ma lo spirito non molla e Mario sostenuto dagli amici, ha potuto mantenere il suo impegno, grazie anche alla disponibilità dei volontari del Club Alpino di La Spezia, i quali hanno formato delle squadre per montare la capanna della Natività in cima alla collinetta trasportando anche le figure accatastate nel magazzino, e infine hanno steso i cavi che con le 15mila lampadine hanno fatto risplendere la collina delle Tre Croci.

Tutto quanto però sotto la direzione del signor Mario, che arrampicandosi tra una terrazza e l'altra ha indicato ai suoi aiutanti il punto preciso dove collocare ogni statua. Pensate che in tutti questi anni non ha mai fatto né una piantina né uno schizzo del tracciato, ha tutto in mente lui e dice che non serve, cosicché solo lui conosce i vari punti di giuntura dei fili ed i precisi settori del grande mosaico che sono alimentati ciascuno da una piccola stazione elettrica.

Che mente questo piccolo uomo!!!

Quest'anno poi all'inaugurazione hanno voluto illuminare il cielo a giorno perché il presepe ha avuto come corollario anche i fuochi pirotecnici.

Il presepe sarà visibile fino al 2 febbraio 2013.

21 novembre 2012

COLLETTA ALIMENTARE: Dove uno per uno fa 5 milioni

Sabato 24 novembre giorno della 16^ Giornata Nazionale della Colletta Alimentare si avvicina, qui Paolo Perego raccoglie qualche brevissima testimonianza delle migliaia di esperienze che accadono nel giorno della colletta, leggetele e andate anche voi nel supermercato della vostra città ad acquistare prodotti per i più poveri.



--------------------------------------------------------------------------------------------
di Paolo Perego, tratto da [Tracce n.10]

Accadrà anche quest’anno. Con l’anziano che regala il suo buono pasto. O la zingara che offre una bottiglia di olio perché aiutata a sua volta. E poi il mondo dei volontari. Dove succede di ritrovarti vicino un avversario politico per imballare pasta e pelati. Tante storie che superano i confini della Giornata di Raccolta. Siamo andati vedere cosa rimane di quegli incontri. Scoprendo vite cambiate. E salvate.

C’è stato l’anziano che si è presentato mostrando il buono pasto con cui fa la spesa ogni giorno: «Ho solo questo, ma oggi lo spendo per voi». O la vecchietta che, entrata al discount per un litro di latte, ne è uscita con mezzo. Nell’altra mano, una scatola di legumi: «Vorrei fare di più, ma davvero non posso...». E l’uomo con mille obiezioni davanti alla pettorina dei ragazzi che l’hanno fermato, salvo poi scaricare il bagagliaio dell’auto pieno di alimenti per farli inscatolare ai volontari. Poi c’è la conoscente della volontaria che si presenta alla raccolta: «È grande quello che fate». «Vieni anche tu a darci una mano l’anno prossimo». «Perché aspettare un anno? Oggi pomeriggio sono libera...». O, ancora, l’anonimo che per anni ha inviato fiori alle volontarie di un supermercato, in segno di gratitudine.
Lasciano senza fiato le storie, le testimonianze e i fatti che ruotano intorno a un evento nato in sordina nel 1997, e oggi diventato il più grande gesto di carità d’Italia: la Giornata Nazionale della Colletta Alimentare. Sono i numeri a dirlo. Quelli dell’anno scorso, per esempio. Cinque milioni di donatori, 120mila volontari di tutte le età sparsi in 9.000 esercizi italiani. E 9.600 tonnellate di alimenti raccolte, tra carne in scatola, legumi, prodotti per l’infanzia...
Cinque milioni di persone. Se si mettessero una davanti all’altra la fila sarebbe lunga 2.500 chilometri. Da Milano a Messina, andata e ritorno. Ma l’Italia, la Colletta, la attraverserà anche quest’anno, l’ultimo sabato di novembre come da tradizione, il 24.
Tradizione, certo. E per tanti lettori un appuntamento fisso da tempo. Eppure non scontato, come invece può capitare che diventi quando lo si segna in agenda tra le “cose da fare”. «Quest’anno poi sarà ancora di più una sfida», dice Marco Lucchini, direttore e tra i fondatori storici del Banco Alimentare che organizza la Colletta. Gli ultimi dati prodotti da Censis e Confcommercio parlano chiaro: una famiglia su cinque quest’anno non è stata in grado di arrivare a fine mese senza intaccare i risparmi o indebitarsi. E le previsioni per il prossimo quinquennio dicono di aumenti di spesa pro-capite intorno agli 800 euro annui. Hai voglia a chiedere alla gente di fare la spesa per altri. «E invece si può fare», dice Lucchini: «Proporre la Colletta è proporre di andare a fondo di cosa può sostenere la vita anche nelle difficoltà». È un’occasione, per tutti. Ma che vuol dire?
Quel “tutti” è davvero tanto. Milioni di persone. Di storie diversissime, che varcano le porte automatiche del supermercato, magari preda dell’umore della giornata. In quel piccolo punto di tempo e spazio, quel giorno dell’anno in un negozio chissà dove, ecco, quell’occasione accade. Sempre. L’esito è misterioso. Qualcuno può andarsene indifferente. Qualcun altro può sentirsi sfidato e starci.

Il silenzio di Enzo. Davanti a Mohamed, per esempio, si sono fermati in tanti quando il ragazzino egiziano si è messo a tradurre in arabo le dieci righe per gli avventori musulmani del market vicino alla moschea di Milano. Per non dire di Rita, da anni capo-équipe per la Giornata in un centro commerciale di Roma, che ne ha viste tante da aprirci un blog zeppo di storie. Da suo fratello, manager aziendale, trascinato dai figli a guidare furgoni per la spola col magazzino, a Enzo, un anziano che diventato cieco, pur di partecipare, se ne sta ore seduto in silenzio vicino a lei. E Fabio, vecchio avversario politico di Rita all’Annuziatella. «Durante una rissa in una notte di attacchinaggi per il referendum sull’aborto ci prendemmo a secchiate di colla». Solo che poi la capo-équipe se lo ritrova al supermercato. Anche lui trascinato dai figli. «L’anno scorso non è potuto venire, così ci ha scritto: “Vi auguro non di raccogliere un chilo in più dell’anno scorso, ma di incontrare più persone possibile, con cui condividere uno sguardo, un abbraccio”».
Uno sguardo che ad alcuni ha cambiato la vita. Prendiamo Massimo, di Cesena. Imprenditore poco più che cinquantenne, settore trasporti. Lui la Colletta l’ha incrociata una decina d’anni fa. Gli avevano chiesto la disponibilità per dei camion e per un magazzino. «L’occasione per un po’ di pubblicità, più che per fare un bel gesto». Così il primo anno, poi il secondo... «A un certo punto mi sono accorto di essere uno di loro. Che l’interesse iniziale veniva sempre meno, sostituito dal rapporto con le persone che facevano il Banco. Un’amicizia imprevista, anno dopo anno. La Colletta era andata “oltre” il giorno della raccolta». E Massimo è sempre più coinvolto.
«Qualche anno fa ho proposto di iniziare la Giornata con una messa nel magazzino per tutti i volontari. Oggi, la sera prima, alcuni dipendenti, anche musulmani, mi aiutano a preparare l’altare per l’indomani. Bisogna farlo bene, che celebra il Vescovo...». Ma perché la messa? «Cristo è l’origine di quel gesto. E ciò che in quel gesto mi ha cambiato la vita. Non sei tu a creare nulla. Capisci cosa vuol dire, detto da un imprenditore? E poi gli imprevisti, i progetti che saltano. Inizi a vedere che anche le cose che non vanno ti sono date. E le vivi in modo diverso».
Cristo, l’origine di tutto. «Io sono fatto e voluto in questo istante da Dio. Solo la riscoperta di questo rapporto originario permette di vivere ogni cosa da uomini. Perché tutto è occasione per incontrare chi mi sta dando la vita ora. Questa è la novità che attendiamo: poterLo incontrare ancora». È un estratto dalle “dieci righe” che il Banco Alimentare ha pubblicato anche quest’anno per lanciare la Giornata. «Rischiando un dialogo con tutti», dice Federico Bassi, responsabile nazionale della Colletta. «Non proponiamo di fare la Colletta per uno spirito solidale, ma per riscoprire che la vita ci è data, e che è possibile, desiderabile, incontrare oggi Chi mi sta dando la vita ora, in questo istante».

Fino a cambiare casa. Anche spostandosi di settanta chilometri, se serve. Dalla Lomellina a Saronno per fare la raccolta, come Felice. «Me la buttò lì mio cugino Paolo, nel 2005: “Vieni, facciamo questa cosa... qualche ora...”». Non aveva mai visto nulla di simile. Ci è tornato l’anno dopo, e quelli dopo ancora. «Ultimamente ho iniziato a fare un po’ di carità anche dalle mie parti, in altre opere. Oltre la Colletta...». Come crescesse sempre di più il bisogno di rivedere la stessa bellezza. Si può perfino decidere di cambiare casa, per quegli amici. Come è accaduto a Paola, che nel far la spesa qualche anno fa conosce la Colletta. Con Anna e gli altri volontari di quel super nasce un’amicizia così intensa che andare ad abitare vicino a loro diventa vitale.
Per alcuni la Colletta è diventata un lavoro. Patrizia abitava vicino alla prima sede del Banco della Lombardia: «Non sapevo neppure fosse lì. Conoscevo la Colletta, giusto quella». Poi i figli, la necessità di una lavoro. Ora nella nuova struttura del Banco a Muggiò, un magazzino di 3.600 metri quadri nell’hinterland milanese, fa la segretaria generale. Diciotto dipendenti, dai magazzinieri al direttore, Marco Magnelli, e quasi cinquecento volontari, per lo più pensionati, divisi in turni settimanali, a gestire derrate alimentari che vengono raccolte tra aziende e supermercati. C’è da scaricare i camion, stipare la merce, e poi selezionare e ricondizionare le confezioni. «Con un unico criterio», spiega Magnelli: «Tu lo metteresti sulla tua tavola?». Tra i volontari c’è anche il presidente, Gianluigi Valerin, manager di un’azienda del campo energetico: «Oggi serviamo più di 1.200 enti caritativi. E la domanda aumenta sempre di più. Certo, ho la preoccupazione che l’opera cresca, che vada avanti. Ma senza mai venir meno all’origine». Così, due volte al giorno, suona la campana che chiama tutti a dire l’Angelus. «Chiarisce lo scopo di quello che facciamo», spiega Valerin davanti a quattro universitari che stanno per iniziare la loro caritativa a Muggiò: «Come ci ha detto il cardinale Scola, siamo presi a servizio per imparare ad amare. Allora, c’è un giorno privilegiato che si chiama Colletta, ma gli altri 364 hanno la stessa dinamica. Sono dati per maturare questo».
Una quotidianità che conosce bene Giancarlo, fotoreporter in pensione, che oggi, volontario, gira tutti i giorni col furgone di Siticibo, altra maglia della Rete Banco Alimentare, a ritirare i pasti avanzati nelle mense aziendali per riconsegnarli alle opere di carità: «Anche per me è nato tutto con la Colletta. L’ho sempre fatta, ma avevo il desiderio di vedere dove finiva quello che veniva raccolto. Poter guardare quelle facce... Fare tutto questo è per essere più uomo io». Alla giornata dell’anno scorso era al magazzino di Rho, uno di quelli che raccoglie gli alimenti della Giornata. «In meno di un mese finisce tutto. Le opere di carità vengono a ritirare gli scatoloni direttamente lì». La Colletta rappresenta circa il 10 per cento delle “entrate” del Banco, il resto viene dalle eccedenze, dall’Unione Europea e dalle donazioni.
«Alla Fiera di Rho, c’erano anche dei carcerati in permesso per dare una mano», racconta Giancarlo. «Era uno spettacolo. E chi non ha avuto il permesso l’ha fatta direttamente in carcere, come a Bollate grazie all’associazione Incontro e Presenza». A Pescara il permesso lo ha ottenuto Said. Con la notte prima passata a pensare a come sarebbe stata la libertà. Sei ore da trascorrere in un supermercato: «Ogni minuto, ogni secondo. Ogni incontro quel giorno mi ha consegnato un valore. E la mia vita è cambiata», dirà a un anno di distanza.

«Anche noi». Il 24 novembre toccherà anche ai minorenni reclusi nel carcere napoletano di Nisida. L’invito ai ragazzi arriva da un operatore che dall’estate coordina un progetto coi piccoli detenuti, e loro nel frattempo gli si sono affezionati come a un padre. «Cca’ nisciuno fa niente pe’ senza niente! Ma se ci state voi, ci siamo anche noi», gli hanno risposto.
È per l’iniziativa di uno che si “pone” che un altro può aderire. Che poi è la dinamica dell’incontro: «Quest’anno come mai, su questo, saremo messi alla prova», dice Federico Bassi: «Niente sacchetti gialli all’ingresso. Anche perché non ci sono soldi, certo. Ma il fatto è che la Colletta è innanzitutto un incontro: c’è se ci sei tu, non può più essere solo un gesto a cui aderire con il “pilota automatico”».
«Non finisci mai di stupirti e commuoverti. Ogni anno è sempre uguale e sempre nuovo». Mario Amati è stato tra quelli che la Colletta l’hanno portata in Italia, nel 1997. «Il mio “primo” supermercato era in piazza Diocleziano, a Milano. Avevamo visto la raccolta l’anno prima in Francia. Era una buona idea. Ricordo che a Parigi, verso le 4 del pomeriggio, col super ormai vuoto, si presentò una donna di colore: aveva un carrello pieno e un sacchetto in mano. Il volontario allungò la mano verso il sacchetto. “No, è mio questo, il carrello è per voi”. Pensai che non avrebbe mai funzionato da noi. L’anno dopo a Milano, stessa ora, stessa scena. Un anziano. Ecco, lo scetticismo era sconfitto». Anzi, dice, quel miracolo si ripete ogni anno. «Con gente che viene apposta a fare la spesa per la raccolta, come una coppia di anziani che vedo da anni, o i titolari di studi legali trascinati dai dipendenti che si prestano a far pacchi. E quella zingara che si presenta con la sportina piena: “Io sono una di quelle che riceve”...».
Anche a Federica è successo un paio di anni fa. Al supermercato dove fa la volontaria entra una madre con un bimbo nel passeggino: «Signora buongiorno, vuole aderire alla Colletta Alimentare». La donna è titubante: «Ma veramente, io...». «Signora. Non si preoccupi, se vuole possiamo parlarne...», risponde Federica pronta ad affrontarla con mille spiegazioni convincenti. «È che io sono una di quelle aiutate». Un risveglio, per lei che era scesa in campo felice di fare la Colletta, un gesto bello e utile, con quegli amici poi. E invece... «Mi sono accorta che stavo limitando tutto a quello. Per chi lo stavo facendo davvero?» E poi il cuore che le scoppia davanti a quella donna: «Avevo davanti a me Cristo. Si era reso presente dando un volto al mio essere là. Non ricordavo più neppure di avere le mani congelate. Avevo davanti a me il volto di Cristo».

31 maggio 2012

La strada della natura


Quando penso a qualcosa di primordiale, di assolutamente originale, mi vengono alla mente i colori (e innanzitutto la luce, cioè il bianco e l’oro). I colori sono le prime parole della natura, le parole che possono leggere anche gli analfabeti, anche coloro che non sanno vedere un quadro, ascoltare una musica, accostare un libro. Essi, dai boschi, dai cieli, dal mare, ricevono un insegnamento fondamentale per la loro vita. Quando non esisteva nulla, ogni uomo che fosse venuto al mondo avrebbe trovato due immensi libri, aperti davanti a lui: le foreste e gli oceani.
Nella mia vita cerco continuamente di tornare a questo insegnamento primordiale, a questa voce che ha parlato prima di ogni voce. Oggi essa è perlopiù sepolta, sia perché non la si sa più ascoltare, sia perché giunge a noi contraffatta. La natura è rovinata: è distrutta dagli uomini, riempita dei suoi cementi, dei suoi scarti, usata. Per questo la sua voce giunge a noi debolmente.
Ma è vero anche l’opposto: è difficile spegnere la bellezza della natura. Abito nella periferia di Roma. Fuori da casa mia comincia la campagna, con i suoi mille sentieri, i suoi prati, i suoi alberi, gli itinerari verso i laghi. La campagna laziale è sempre benevola di luci con differenti tonalità. In ogni stagione, anche se la sua stagione più profonda è l’autunno. Mentre il momento più rivelatore della giornata è il tramonto.

La felicità dei fiori
Ricordo una mostra del grande pittore bielorusso Marc Chagall. Aveva come titolo «I fiori sono la vita stessa nella sua smagliante felicità». Chagall dice qualcosa di cui sono sommamente convinto: la vita ha una sua espressione privilegiata nella natura.
Quando cammino per le strade, quando mi trovo su un treno o su un’automobile, quando mi concedo un po’ di riposo e mi metto a passeggiare, rifletto sul fatto che nel mondo si addensano due tipi di realtà: quelle fatte da Dio, che chiamo originarie, e quelle fatte dall’uomo, che chiamo costruite. Le realtà originarie, frutto di un’evoluzione e di una trasformazione millenaria, sono chiamate nell’epoca moderna “la natura”. Nel medioevo erano “la creazione”.
Dall’età moderna in poi si è guardato non tanto all’origine del mondo animale, vegetale e minerale, ma alla sua perenne e continua trasformazione. Naturus è ciò che sta per nascere, ciò che evolve continuamente. Le montagne sono solcate dai venti e dalle piogge, gli oceani erodono le terre, i terremoti aprono solchi dentro le profondità degli abissi… Questi cambiamenti, che a noi appaiono giganteschi, cosa rappresentano di fronte al continuo movimento dell’universo?
Nello stesso tempo, la natura mi interroga, mi fa compagnia, mi indica una strada per la vita. Questa realtà, che ho chiamato originaria, per i medievali era nata dalle mani di Dio e parlava di lui. Essa ha una sua bellezza profonda: quella che ha visto Chagall, su cui non smetto mai di rivolgere i miei occhi.
È il desiderio di tornare allo sguardo dell’infanzia, quello sguardo che scopre le cose nel momento in cui nascono, in cui cominciano a crescere, manifestando la loro luminosità.

di Massimo Camisasca, estratto da Dentro le cose, verso il mistero, Bur 2012

06 marzo 2012

«Perché è umano, troppo umano»

Questo bell'articolo di Frangi su Schifano capita a fagiuolo come si suol dire.
Proprio sabato il mio amato nipotino che tra tre mesi compie 4 anni, mentre si dilettava a dipingere a modo suo con i pennarelli, mi ha regalato l'ultima sua opera, un prato fiorito, dicendomi:l'erba è un po' alta ma si vedono i fiori.
L'ho guardato stupefatta e ho esclamato: ma questo è uno Schifano! E lui: nonna non si dice così. Ma no adesso ti spiego e così io e la mamma gli raccontiamo di Schifano e lo portiamo a vedere un campo di Schifano a casa di una nostra amica.
E lui, tranquillo e beato come solo i bimbi san fare dice all'amica: appendi anche il mio vicino!


di Giuseppe Frangi, tratto da [Tempi.it]

Perché Mario Schifano? Tra gli artisti italiani dell’ultimo scorcio di Novecento non è quello internazionalmente più conosciuto. E quindi non è neppure tra quelli corteggiati dal mercato. Nei suoi confronti la critica ha mostrato sempre simpatia, ma sempre mantenendo una punta di irriducibile riserva riguardo alla sua affidabilità, sia come persona sia come artista. La sua produzione sempre così irregolare, la sua biografia un po’ borderline (diceva: «Quando a Roma hanno bisogno di un titolo sul giornale, vengono a casa mia e mi arrestano per detenzione di stupefacenti. Lo sanno tutti che io non nascondo niente»), ne hanno fatto una figura un po’ collaterale ai fenomeni che contano. Dovessimo tracciare un parallelo, viene senz’altro in mente il nome di Pasolini: come lui era disallineato rispetto ad ogni collocazione culturalmente ortodossa. Era un fuori schema.

Per questo, dovendo scegliere un artista italiano da inserire in questo percorso attraverso i grandi (e anche discussi) nomi dell’arte contemporanea proposto da Tracce, ci è sembrato non banale andare su di lui. Schifano per altro ha una caratteristica interessante che lo definisce: è un artista visceralmente italiano. Per quanto abbia certamente assimilato e metabolizzato, ad esempio, il linguaggio della pop art, non si è mai omologato a quella o altre visioni d’importazione. Alla fine, la cifra ultima è sempre sua, anche nell’incertezza, anche dove non riesce. Ed è difficile trovare altra definizione di quella cifra che è un po’ il timbro di tutta la sua avventura artistica, se non chiamandola bellezza. Tutto in Schifano porta lì, frutto di una grazia che scaturisce dalle sue mani e dai suoi colori.

Per cominciare va detto che Schifano è sempre stato pittore nel senso più totale e quasi vocazionale del termine. «Voglio dipingere la pittura», diceva di sé. Intendendo con questo di essere consapevole che la pittura poteva essere portatrice di una felicità che era connessa non tanto con quello che veniva rappresentato, ma con la sua stessa natura, di gesto, di colore, di apparizione inimmaginata. Non c’è mai presunzione intellettuale nel suo lavoro, ma una fiducia senza riserve nel mezzo amico. Ha raccontato la moglie Monica De Bei (che era stata anche sua allieva): «...era molto veloce, senza ripensamenti. Era meraviglioso quando già alla prima stesura del colore di base sulla tela vedevi con chiarezza che sarebbe uscito un quadro pulito. Era pericolosa quella felicità di esecuzione, ti dava l’illusione che anche tu avresti potuto esprimerti così semplicemente». E poi: «Mario non leggeva mai quello che i critici scrivevano sulla sua pittura, diceva: “Spero sempre di fare quadri senza inutili volontà di spiegazioni”... Vivere il suo lavoro era assolutamente diverso che osservarlo poi oggettivamente in una galleria o in un museo, e Mario era la sua pittura».

Sono importanti quelle parole che la moglie Monica sottolinea con i corsivi. «Uscito», innanzitutto: indica che la pittura di Schifano scaturisce da dentro. Non è progettata, non è calcolo, come se chi la realizza non ne avesse il possesso, ma ne fosse soprattutto posseduto. È l’alba di una fantasia, ha scritto efficacemente Sandro Parmiggiani. Che aggiunge: «La sua pittura è un darsi totalmente delle mani e del corpo». «Pulito»: la seconda parola suggerisce questo scarto inspiegabile tra la confusione e il disordine che era la condizione dello studio, ma anche della sua vita e la purezza che si generava nelle sue opere. Uno scarto tanto imprevedibile quanto rivelatore. Infine, «vivere»: per Schifano dipingere era come respirare. E questo spiega la quantità incredibile di lavori che ha lasciato dietro di sé, quella sorta di voracità dello sguardo che lo portava a cercare di portare tutto in pittura; c’è una frenesia che sfida quasi la stessa capacità dell’occhio di intercettare le cose. «C’è in ogni sua opera brivido di movimento, fremito di ribellione contro il rischio della decorazione, c’è vita, mai staticità, morte», scrive sempre Parmiggiani. Ma c’è anche la leggerezza di chi sa che non si potrà mai essere sazi, che non c’è punto di approdo o di chiusura del discorso. «La pittura è la mia maniera di esistere», confidava Schifano. Così la sua pittura non aveva altre pretese che non quella di vivere, di essere.

Schifano, naturalmente, ha attraversato in pieno la sua epoca e le sue stagioni artistiche risentono di continue contaminazioni, a partire dagli inizi così segnati dall’idea di andare oltre le immagini, di creare con i quadri delle situazioni e non più delle semplici rappresentazioni della realtà. Poi c’è la stagione della pop art all’italiana, contemporanea a quella americana: anche Schifano più che opporsi al dilagare del nuovo immaginario consumistico, lo fa suo, lo metabolizza. Ci sono i complicati anni Settanta, da cui non si sottrae, come dimostra quel suo celebre ciclo Compagni compagni in cui con leggerezza cerca di intercettare il meglio di quell’esperienza, il suo slancio umano, la sua carica di libertà.

Anche gli anni Ottanta vedono Schifano allineato, questa volta nel flusso vasto del ritorno alla pittura. Ma il suo accento ha una freschezza che lo tiene al riparo da qualsiasi spirito revanscista, o da un’arte che si rifugia nelle allusioni o nelle metafore. Il fatto chiave di quegli anni è la nascita del figlio tanto desiderato. Marco viene alla luce nel 1985, e per Schifano rappresenta un punto di scaturigine creativa impressionante. Non solo. L’arrivo del figlio mette a nudo il suo cuore poetico, lo scopre in maniera definitiva, lo libera. Nel 1965 Schifano aveva dipinto un quadro famoso che era un preludio di questa sua stagione finale. Io sono infantile era come una dichiarazione poetica e umana insieme. Era una sorta di coming out, un’ammissione della propria condizione di pittore disarmato dal punto di vista degli strumenti culturali. Schifano, in particolare quello dopo il fatidico 1985, è uno Schifano che procede con gli occhi sgombri del bambino. La sua mente si apre a tutte le cose senza mai schedarle. Il mondo sembra sempre stupirlo, tant’è vero che quando lo trasforma in pittura (perché Schifano trasformava in pittura tutto quel che toccava), è come se rappresentasse un mondo mai visto. Un mondo appena nato.

C’è una grande tenerezza in tutta l’ultima stagione di Schifano, una tenerezza che neanche il disordine e i disastri connessi alla sua vita riescono a incrinare. Negli ultimi anni diversifica anche i linguaggi, vive con la televisione sempre accesa, fotografandola come per non farsi scappare frammenti che vorrebbe conservare nel suo immenso catalogo della vita. Tappezza la sua esistenza di immagini, con la curiosità di un bambino e insieme con l’ansia di un innamorato che non vuol farsi scappare nulla e vuole abbracciare tutto ciò che la vita gli porta incontro. Srotola colori sulle tele, in un esercizio continuo di libertà e fantasia, annodando e associando pezzi di realtà. Riaffiora anche la luce del suo Eden perduto, quella Libia in cui era nato nel 1934 e dove aveva vissuto tutta la sua infanzia: riaffiorano il sole sfolgorante, lo slancio delle palme, la purezza della sabbia. Ma non è un passato subito come nostalgia. «Io vivo nel presente e nel futuro», diceva. «Non accetto i ricatti del passato».

Schifano così traghetta uno sguardo innocente e insieme profondo da una generazione all’altra; da quella del padre archeologo, attraverso la sua, sino a quella del figlio Marco. Alla pittura Schifano chiede di fare da raccordo, come un inesausto atto d’amore. L’essenza della pittura per lui è la generosità, ben più decisiva della coerenza o della correttezza formale.
Quando una volta gli avevano chiesto perché continuasse a fare quadri, la sua risposta è stata la più bella che da un pittore ci si possa aspettare: «Perché è umano, troppo umano».

Fare il ritratto a Dio


In una classe elementare c'è una bambina di sei anni che non presta mai attenzione, tranne che quando si disegna. Quando viene il momento di disegnare la bimba è capace di acciambellarsi sul foglio lasciando tutto il resto del mondo fuori. La maestra le chiede cosa stia disegnando e la bambina senza guardarla, ma continuando a disegnare le risponde: «Sto disegnando un ritratto di Dio». La maestra, stupita commenta: «Ma nessuno sa a cosa somigli Dio». La bambina risponde: «Lo saprà fra un minuto».

Questa storia mi sembra rappresenti magnificamente l'introduzione al percorso sul senso religioso. Questa bambina cerca Dio e lo fa attraverso il suo talento: il disegno. Il resto non le interessa. E lei sa che può riuscire a ritrarre Dio, a dispetto della diffidenza della maestra. Il senso religioso di quella bambina è vivo e autentico. Lei crede, perché crede nel disegnare e nel disegnare pone le domande ultime di ogni cuore umano.

«Se vi ho parlato delle cose terrene e non credete, come crederete se vi parlerò delle cose celesti?» (Gv 3.12). Non c'è frase del vangelo che forse io ami di più di questa. Non c'è frase del vangelo che spieghi meglio di ogni altra cosa sia il senso religioso. Come dice la stessa parola si tratta di un vero e proprio senso, come i cinque sensi, ma con il pregio di riunificare in uno spazio unico: sensi, cuore, mente. Gesù si lamenta con i suoi interlocutori della loro incapacità di credere alle cose della terra, prima ancora di quelle del cielo, e della impossibilità di spiegare quelle del cielo senza aver prima creduto a quelle della terra. Come si può far crescere la vita dello spirito se prima non si abbraccia con fede assoluta la terra? In fondo Cristo stesso è questa risposta. Si fa carne perché impariamo a credere alla carne. Si fa uomo perché impariamo a credere nell'uomo.

Spesso i miei alunni si stupiscono quando parlo della fede in termini di conoscenza di un amico, di un amore profondo per una persona. Se non si ha “il senso” della relazione con Dio la fede è ridotta a morale, condotta, prassi. In fondo è impossibile credere perché non si vede, non si tocca, non si annusa Dio. Hanno ragione. Ma il loro punto di vista è ristretto. Non hanno ancora scoperto che per credere in Dio bisogna prima credere alle cose della terra. Se non credi nei tuoi talenti, nella tua capacità di ragionare, di amare, se non ti appassioni a qualcuno e a qualcosa, come puoi mai accedere alle domande ultime che poi aprono la strada alla vita dello spirito.

Spesso viviamo la fede come una serie di pratiche che ci consentono di essere buoni. Invece la vita dello spirito è molto più reale della rivista che avete in mano. È la presenza della vita della Trinità in noi e di noi dentro quella vita. Senza questa realtà non avreste in mano quella rivista, perché non ci sareste. Tutto questo è così vero e radicale che non lo vediamo. Come l'aria che respiriamo: diamo per scontato che ci sia, ma senza non potremmo vivere. È proprio quando le cose diventano ovvie che abbiamo smesso di porci domande su di esse.

La vita dello spirito ha le sue leggi come quella del corpo. Ha bisogno di essere nutrita e accudita. Ma questo per noi fatti di corpo, di un corpo spiritualizzato, o di uno spirito nella carne, è possibile solo attraverso il corpo e la carne. Per questo abbiamo bisogno di credere alle cose della terra, perché sono l'unica via di accesso al senso religioso.

“Senso” in italiano vuol dire non solo “apparato sensoriale”, ma anche “direzione” e “significato”. Chi non crede nelle cose della terra, non arriverà mai a cogliere il significato delle cose della terra, né tanto meno a cogliere la direzione da dare ad esse e alla propria vita immersa in esse.

«Voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita in senso non ce l'ha». Così cantava Vasco qualche anno fa. Trovare il senso alla vita è usare i sensi per credere alla vita, solo così le cose della vita, il suo essere così attaccata a me da darla per scontata, si aprirà al significato che essa ha e mi catapulterà nella domanda di ogni pastore errante su questa terra: ed io che sono? Solo i sensi aperti al dialogo con la Luna, il suo credere alla Luna e ai suoi movimenti regolari, lo costringono alla domanda sul senso delle cose. Ecco che il senso religioso, una specie di orecchio, naso, occhio, pelle, lingua interiori coglieranno la risposta di una creazione che è dono, di una carne che è tempio della Trinità, la risposta capace di dare una direzione, un senso, a quella vita.

La vita ha senso proprio perché non glielo diamo noi, ma perché emerge da sé stessa, dal dna che la Trinità ha impresso nelle cose. Ogni cosa, ogni persona dice: io sono dono per te. Ogni cosa ogni persona dice: io voglio essere amata. Ma riusciremo a non sospettare delle cose, delle persone, della realtà, di noi stessi? Riusciremo a credere nelle cose della terra? Solo questa fede a tutti accessibile ci porterà a credere nelle cose del cielo.

Per questo Giussani può dire nell'introduzione del volume secondo del PerCorso: «Tutti gli impeti con cui l'uomo è spinto dalla sua natura, tutti i passi del moto umano – moto cosciente e libero –, tutti questi passi, cui lo slancio originale induce l'uomo, sono determinati, resi possibili e realizzati in forza di quell'impulso globale e totalizzante che è il senso religioso...» e la vita umana «risulta perciò progetto sviluppato da quell'impeto globale, del senso religioso».

Noi siamo chiamati alle domande ultime come quella bambina e troveremo risposta attraverso il nostro disegnare, attraverso quello che siamo e amiamo. Attraverso le cose della terra crederemo e faremo il ritratto a Dio. E scopriremo che era un autoritratto.

Di Alessandro D'Avenia, tratto da [Tracce.it] 2 marzo 2012

28 febbraio 2012

E' iniziata la Quaresima


Ho intitolato il post Quaresima perché almeno tutti sanno cos'è o almeno si spera, il titolo originario di Pigi Colognesi era "Purificazione", ma mi sono chiesta: quanti si domanderanno cos'è e forse anche tra i cattolici praticanti che ben sanno cos'è, ci sarà qualcuno che ancora non ha chiaro il motivo per cui purificarsi, perciò tralascia o rimanda all'infinito questo momento. Mi piace molto come scrive questo giornalista, non usa mezzi termini arriva sempre chiaro all'obiettivo senza tentennamenti, non fa sconti a nessuno neanche a se stesso.

"Purificazione" di Pigi Colognesi
È cominciata la Quaresima. Sembrerebbe che la disposizione interiore consona a questo tempo liturgico – cioè la penitenza- sia, di questi tempi, favorita dalle circostanze esteriori. La crisi economica ci sta mettendo a stecchetto e, da più parti, si evidenzia come questo fatto ci suggerisca di cambiare stile di vita. Si parla del valore della sobrietà, della morigeratezza; ci si invita a riscoprire costumi alimentari, d’abbigliamento, di divertimento, di spesa più semplici, meno onerosi per le tasche, meno impegnativi nell’uso del tempo e, probabilmente, più sani per la salute. Ora che la crisi non ce lo permette più, abbiamo scoperto di essere una società di sovralimentati, di schiavi della moda, di assatanati per avere l’ultimo gadget tecnologico e per passare le vacanze nella località più trendy. È il tanto vituperato quanto agognato consumismo; e adesso che dobbiamo accettare gli anni delle vacche magre, riscopriamo il valore di qualche astinenza. Persino dalla intossicazione mediatica; come quel giornalista che ha eroicamente deciso di sconnettersi completamente dalla rete telematica per un’intera settimana; poi ci ha raccontato come se l’è cavata in quest’epica lotta per mostrare a se stesso di non essere un internet dipendente.
Siccome niente capita per caso, sono convinto che questo invito alla sobrietà che le circostanze ci offrono e/o impongono sia una buona occasione. Ma non si può ridurre a questo il senso della penitenza, così come la Quaresima ce la propone.
Prima di tutto perché è una penitenza forzata, imposta dall’esterno e assomiglia troppo al buon viso fatto a cattivo gioco. Non essendo frutto di una libera e ragionata decisione, resta superficiale e rischia di rimanere una parentesi in attesa di poter riprendere i comportamenti e gli stili di prima.
Ma ciò che manca del tutto a quest’aria di francescanesimo all’acqua di rose, di astinenza che assomiglia ad una disintossicazione, di rinuncia che sa tanto di impotenza è proprio quello che la tradizione cristiana chiede come primo passo: la coscienza del peccato. Il semplice tirar fuori questa scomoda parola fa capire tutta la differenza.
Il punto d’avvio della penitenza è infatti accorgersi che c’è qualcosa di colpevolmente sbagliato che deve essere «confessato», cioè coraggiosamente ammesso.
Dopo la dolorosa discesa nei gironi infernali e la faticosa salita sui cerchi del purgatorio, Dante arriva in cima alla montagna della purificazione, dove si trova il giardino dell’Eden. Qui assiste estasiato ad una straordinaria processione cui partecipa tutta quanta la storia della salvezza. Il culmine è un carro sul quale c’è una donna velata; il poeta sente che è l’amata Beatrice. Ma al suo cuore in tumulto la donna rivolge solo aspre parole di rimprovero. Dante resta impietrito, finché sotto l’incalzare di Beatrice, si scioglie in un pianto dirotto e umilmente confessa i suoi peccati, ammette di aver volto i propri passi «a via non vera/ imagini di ben seguendo false,/ che nulla promission rendono intera». Solo a questo punto l’amata gli mostra il suo volto d’impareggiabile bellezza. La vera penitenza è tutta qui. Benedetto XVI ha recentemente parlato più volte di purificazione. E per purificarsi bisogna avere il coraggio di ammettere che c’è qualcosa di sporco.

tratto da [ilsussidiario.net] 28 febbraio 2012