Vincent Van Gogh - Notte stellata sul Rodano - particolare (Musée d’Orsay, Parigi)

21 febbraio 2011

I moralisti di oggi sono quei libertini che ieri hanno rovinato i nostri figli?


I nuovi moralisti di oggi dovrebbero riflettere su quei 'modelli' che un tempo han propinato come rivoluzionari ai giovani come loro, 'modelli' che poi han riproposto anche ai loro figli.
Ma adesso che succede, non san più come frenare l'orda dilagante di mancanza di senso...e allora alt, fermi tutti, ecco madre giustizia che rimette a posto tutto... e tanto per non smentirci, cominciamo da chi ci stà proprio qui...nel gozzo. 
Attenti però che se non cominciate a guardare la vita con occhi diversi, a partire da casa vostra, da chi vi è accanto...rischiate di inghiottire solo bocconi amari. La vera libertà è solo dentro un rapporto, una vicinanza, una condivisione giudicata giorno per giorno e non un "figlio mio sei libero di fare ciò che vuoi".





Carlo Bellieni, neonatologo di fama, oggi ha scritto questa lettera al quotidiano on-line ilsussidiario.net, la trovo di una profondità incredibile.


***


Caro direttore,


due parole da pediatra, perché i risvegli di “decenza” e moralismo, cui assistiamo in questi giorni da parte di chi strombazza il liberismo più selvaggio in campo sessuale, ci fanno prima sorridere, e poi piangere per i riflessi sui più piccoli. Anche perché il primo messaggio che passa loro è che la morale si fa solo quando torna comodo, dato che sanno bene che oggi si parla di decenza, mentre fino a ieri si raccontava che il matrimonio è una convenzione, e che è normale fare sesso col primo arrivato. E i nostri bambini bevevano tutto questo, lo assorbivano e lo assorbono.


Avete idea di quante ore di pornografia si sorbiscano i nostri bambini quando scarrellano sulla tv o su internet? E non vi siete mai stupiti perché le vostre bambine a 10 anni magari si truccano, o vogliono le scarpe coi tacchi, o usano termini come “sexy” o “fashion”, per descrivere un’amichetta? E vogliono abiti firmati, sanno tutto delle trasgressioni sessuali delle star di Hollywood che poco a poco diventano loro idoli, tanto più sono dedite a eccessi pornografici. E in ogni edicola da decenni campeggiano immagini di donne spogliate e messe in vendita sulle copertine dei giornali, e sono alla portata di tutti. E si svegliano oggi e parlano oggi di decenza avvilita?


Sono o non sono icone del cinema “progressista” i film Colazione da Tiffany e Pretty Woman, che parlano come niente fosse di prostitute tanto da farle considerare vere e proprie icone? E vi scandalizzate oggi? Tanti hanno chiesto per anni la prostituzione equiparata a qualsiasi altro lavoro, mentre noi gridavamo che era inaccettabile, e sono diventati i primi moralizzatori.


Bastava leggere il Newsweek del Febbraio 2007 per capire come l’allarme è planetario, dato che, vi si legge, stiamo allevando una generazione di baby-prostitute! E i neomoralisti di oggi non li sentivamo scandalizzati a leggere che bimbe si fanno foto nude e le vendono, che vanno a fare le sexy-cubiste minorenni, che fanno sesso quando hanno i primi brufoli e sono invitate a farlo da quasi tutte le star che vanno in tv.


Eppure erano usciti libri come Ancora dalla parte delle bambine (Loredana Lipperini, 2007), che lanciava un allarme forte e chiaro da vera femminista verso la diffusione dell’indecenza tra i minori; e allarmi verso modelli di cartoons e bambole dove le eroine non sono anoressiche, ma hanno un vitino di 10 cm di circonferenza, e delle cosce lunghe e slanciate, ombelico di fuori e chili di mascara, ombretto e lucidalabbra. Eppure esistevano La sindrome di Lolita di Anna Olivero Ferraris, (2008) o Sporche femmine Scioviniste (2006), in cui Ariel Levy, voce del femminismo, denuncia le contraddizioni, l’ambiguità e l’incongruenza di quello che viene spacciato per il “nuovo potere delle donne”. Ma finora i guru progressisti non sembravano né averli letti, né aver preso coscienza dell’orrore.

E si svegliano ora a parlare di “decenza”? Gli araldi ormai anziani del ‘68 - quelli che solo ora si scandalizzano - hanno creato una generazione di figli senza ideali, capace da vent’anni di vendersi per un jeans, la generazione degli “echo-boomers”, cioè di quelli che vivono solo di riflesso degli ideali dei genitori, ma senza ideali propri.

Il moralismo e il richiamo alla “decenza” di chi ha distrutto il cuore e il cervello di questa generazione farebbe ridere, se non fosse tragico richiamo a un orrore: quello di una generazione senza fede e senza speranza, che ha inquinato il cuore dei figli, che li ha buttati a gozzovigliare senza senso e senza coraggio, e ha chiamato tutto questo “libertà”.

di Carlo Bellieni, tratto da [ilsussidiario.net] 21 febbraio 2011





07 febbraio 2011

Jean Leclercq. Liberi dentro un'obbedienza

Qual è, a suo giudizio, l'essenza della libertà benedettina?

La libertà benedettina è la libertà cristiana. Essa consiste primariamente in un consenso all'essere, a Dio, così come fa Cristo nel Getsemani. La vita monastica, improntata alla Regola di san Benedetto, è una scuola di vita in cui si è educati a essere liberi. Liberi dentro un'obbedienza. Questo è infatti il mistero della vita cristiana: più si obbedisce più si è liberi.
Da un'intervista a Jean Leclercq pubblicata sul libro di
Massimo Borghesi, Maestri e testimoni. Profili filosofico-teologici del'900.


Imparare a leggere
di Pigi Colognesi, tratto da [ilsussidiario.net] 7 febbraio 2011


Jean Leclercq - qualche giorno fa si è celebrato il centenario della sua nascita - era un monaco benedettino ed è stato uno dei massimi studiosi del pensiero e della spiritualità monastica del Medioevo.

A lui si deve un decisivo allargamento di prospettiva in questi studi; egli, infatti, ha dato un contributo fondamentale alla riscoperta della «teologia monastica», cioè di quella che non si faceva nelle università e nelle scuole - «scolastica» - bensì nei monasteri. Una teologia che non punta prioritariamente all’elaborazione teorica e sistematica, ma all’immedesimazione esistenziale, al cammino spirituale.

Nel suo capolavoro Cultura umanistica e desiderio di Dio (fortunatamente ripubblicato in Italia nel 2002) Leclercq ricorda che la molla che spingeva tanti uomini del medioevo a farsi monaci era, in sintonia con l’impostazione di san Benedetto, esattamente il «desiderio di Dio». A questo era finalizzato ogni aspetto della vita, compreso lo studio (l’originale francese del titolo non parla di «cultura umanistica», ma di un più chiaro amour des lettres, che potremmo leggere come «passione per la conoscenza»).

Nel crogiuolo di questi due elementi, presi nel giusto ordine gerarchico, è fiorita, la grande sapienza di san Bernardo di Chiaravalle, uno degli autori più studiati da Leclercq, e di molti altri da lui riscoperti.

Cultura umanistica e desiderio di Dio, spiegando formazione, fonti e frutti della cultura monastica, è ricchissimo di spunti d’insegnamento anche per noi oggi. Esemplifico riportando alcuni brani in cui Leclercq illustra che cosa significasse per i monaci medievali leggere e riflettere su quanto si è letto.
Per noi, quando non è una frettolosa ricerca di stimoli o di informazioni che subito svaniranno, la lettura è sostanzialmente il tentativo di immagazzinare dei concetti. Per i monaci, mossi dal «desiderio di Dio», era operazione del tutto differente; per loro «leggere un testo era impararlo a memoria nel senso più forte di questo atto, cioè con tutto il proprio essere: con il corpo poiché la bocca lo pronuncia, con la memoria che lo fissa, con l’intelligenza che ne comprende il senso, con la volontà che desidera metterlo in pratica».

Dunque, un atto che coinvolge tutto l’io e non solo i neuroni del suo cervello. Questo metodo, scrive più avanti Leclercq, «porta a riconoscere grande importanza al testo e alle singole parole». Tanto che i teologi monastici chiamavano la loro riflessione ruminatio, proprio come fa un bovino che ha appena pasturato.

Riflettere «significa aderire strettamente alla frase che si ripete, pensarne tutte le parole per giungere alla pienezza del loro senso». È un’azione che «assorbe e impegna tutta la persona» e si trasforma «necessariamente in una preghiera».

Mi pare una modalità da riscoprire nella nostra superficiale frenesia di lettori sbadati. Del resto, dice ancora Leclercq, i monaci avevano un compito, quello di «mostrare, con la loro stessa esistenza, la direzione in cui bisogna guardare». Non solo nel Medioevo.

06 febbraio 2011

6 febbraio Giornata per la vita



Per uscire dall'ideologia della solitudine

di Carlo Bellieni

La Giornata per la vita che si celebra oggi in Italia è un richiamo, come sottolinea il messaggio dei vescovi, a "educare alla pienezza della vita". Nelle scuole, ma anche sui media, dove latita una buona informazione sui temi etici: si pensi al modo in cui è stato presentato il suicidio di un celebre regista italiano e allo spot televisivo dove un anziano chiede l'eutanasia come "diritto", tessendo lodi della sua vita scandita da decisioni prese in solitudine e chiedendo di concluderla nello stesso modo. Due esempi di una mentalità generale e montante, in cui la libertà è ridotta ad assenza di legami e la solitudine è vista come condizione ideale per prendere decisioni.
Ma la solitudine non è un ideale, perché sarebbe come dire che lo sono anche l'ignoranza o la schiavitù. Solitudine e tristezza schiacciano e soffocano la libertà.


Nello scorso dicembre la rivista "Lancet" ha lanciato un allarme contro l'"epidemia di solitudine che colpisce gli anziani", analizzata in profondità dal documento The forgotten Age del Centre for Social Justice, pubblicato in novembre nel Regno Unito. E un preoccupato messaggio viene dall'"Australian and New Zealand Journal of Psychiatry", che nel numero di gennaio mette in evidenza l'alto tasso di suicidi tra gli adolescenti.

Eppure, la liberalizzazione di eutanasia, aborto e droga si basa proprio sul far credere che quanto decidiamo nel dolore e nella solitudine sia libertà, e sul far passare come "indegno" quello che invece è una caratteristica strutturale dell'essere umano: il dipendere dagli altri, che a volte può essere quasi totale, mai però indegno. Si è dato il nome di libertà alla solitudine, chiamandola autonomia, cioè "essere ognuno la legge di se stesso". Da qui a far credere che la perdita dell'autonomia quotidiana (camminare, parlare) renda la vita indegna il passo è breve. Ma non è così. Dipendere da una figlia o da un padre non è indegno, ed è profondamente ingiusto diffondere questa idea. La lotta alla malattia ci sta a cuore, ma non accettiamo l'idea che la vita malata e dipendente dagli altri perda significato.

Per diffondere la cultura della solitudine, i media tacciono i tanti casi di eroismo di fronte alla malattia, dando spazio ai rari esempi di coloro che rivendicano la supposta libertà di lasciarsi morire. Su questo tema si è discusso di recente, col solo errore di pensare che questo comportamento dei media nasca da una cultura della morte, la quale presuppone un'ideologia nichilista e autoritaria. Si tratta invece più banalmente di una cultura della solitudine, in realtà forse ancor più pericolosa della prima: essa mostra infatti un volto mite, che contrasta con i suoi effetti nefasti, e dissimula l'angoscia esistenziale della mentalità che la genera. Oltretutto, c'è un dato semplice e lampante che dovrebbe far riflettere: quanti vogliono vivere sono molto più numerosi di coloro che vorrebbero morire. Questo dovrebbe in primo luogo garantire un accesso proporzionale all'informazione, e soprattutto far capire che la scelta per la morte è e resta l'eccezione, perché non è ciò che i malati vogliono se le condizioni esterne non li inducono alla disperazione. Ed è compito dello Stato assicurare loro buone condizioni, non agevolare la morte.

Chi diffonde sui media un volto nobile della morte provocata, dovrebbe almeno immaginare quanto questo sia nocivo per le persone che soffrono, in particolare chi è depresso o solo. In questo modo, curare la vita del disperato o aiutarlo a farla finita appaiono due opzioni uguali, dello stesso peso. Ma è un ragionare strano, perché solitudine e disperazione sono l'antitesi della libertà e la annullano, riducendola a una ritirata forzata. Ed è pericoloso, per i rischi di emulazione: ricordo che in Italia una ventina di anni fa ci fu un breve periodo durante il quale si suicidarono molti adolescenti, e non è stato questo l'unico caso di suicidio contagioso. Bisognerebbe poi approfondire quanto influisca il peso economico nelle richieste di liberalizzazione dell'eutanasia. Nello scorso dicembre il "British Journal of Nursing" ha paventato il rischio dell'apertura all'eutanasia non per motivi "nobili", ma molto più prosaicamente per abbattere la spesa sociale.

Come scrivono i vescovi italiani, la Giornata per la vita è un impulso verso "un nuovo umanesimo", per uscire dall'ideologia della solitudine e della paura. E, come ha spiegato il Papa lo scorso 17 novembre, è una spinta a ritrovare una "giustizia sanitaria", perché l'attacco alla vita viene subito dopo l'attacco alla giustizia. E cosa c'è di più ingiusto che lasciare una persona sola, o farla considerare inutile?
La paura di dover dipendere dagli altri, quasi non fosse la nostra condizione quotidiana, e il culto orgoglioso dell'autonomia, come se ogni giorno non obbedissimo a leggi universali e naturali con nostro giovamento, concorrono ad aprire all'eutanasia, ben diversa dal diritto a sospendere l'uso di medicine se inutili e intollerabili. È una cultura questa che definisce persona solo chi è in possesso di certe condizioni di indipendenza, e nasce da una società intrisa di disabilità affettiva. Una disabilità peggiore di quella fisica o mentale, perché non educa alla solidarietà verso queste ultime, ma solo all'infantile desiderio di farle sparire per magia.
©L'Osservatore Romano - 6 febbraio 2011

05 febbraio 2011

Uomini di Dio: il successo al cinema rivela quanto forte sia il desiderio di Dio



Una risposta per chi si chiede se il desiderio di Dio sia ancora presente nel nostro tempo. Se sia ragionevole per un uomo del Terzo Millennio credere in Dio, riconoscerlo come familiare.

La riuscita del film sui monaci di Tibhirine, che tanta attenzione sta suscitando ovunque nel mondo, sembra a me riflettere il desiderio ardente del cuore di donne e uomini di ogni latitudine di incontrare il volto di Dio. Quindi del bisogno vivo in tutti noi di testimoni autentici, che ci aiutino a tenere alto lo sguardo.


L’autentica testimonianza infatti non è riducibile al “dare il buon esempio”. Essa brilla in tutta la sua integrità come metodo di conoscenza pratica della realtà e di comunicazione della verità. È un valore primario rispetto ad ogni altra forma di conoscenza e di comunicazione: scientifica, filosofica, teologica, artistica, ecc.


Un esempio luminoso di questo metodo è offerto proprio dalle parole del testamento spirituale di Padre Christian de Chergé, priore del monastero trappista di Notre-Dame de l’Atlas in Tibhirine, Algeria, da lui scritto ben tre anni prima di venir trucidato con i suoi monaci: «Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di chiedere il perdono di Dio e quello degli uomini miei fratelli, perdonando con tutto il cuore, nello stesso momento, chi mi avesse colpito… Non vedo infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che io amo venisse accusato del mio assassinio. Sarebbe pagare un prezzo troppo alto ciò che verrebbe chiamata, forse, "la grazia del martirio", il doverla a un Algerino, chiunque sia, soprattutto se egli dicesse di agire in fedeltà a ciò che crede essere l'Islam alla fin fine io sarò stato liberato dalla curiosità più lancinante che mi porto dentro: affondare il mio sguardo in quello del Padre per vedere i suoi figli dell'Islam come lui li vede: tutti illuminati della gloria di Cristo, anche loro frutto della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà di ristabilire la comunione e la somiglianza giocando con le differenze. Di questa mia vita perduta, totalmente mia e totalmente loro, io ringrazio Dio che sembra l'abbia voluta tutta intera proprio per questa gioia, contrariamente a tutto e malgrado tutto. E anche tu, amico dell’ultimo istante, che non saprai quello che starai facendo, sì, anche per te voglio io dire questo grazie, e questo a-Dio, nel cui volto io ti contemplo. E che ci sia dato di incontrarci di nuovo, ladroni colmati di gioia, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, Padre di tutti e due».


In questa che è una delle pagine più belle mai scritte nel ‘900 si coglie in pienezza come nel martirio cristiano trovi compiuta manifestazione la narrazione che Dio fa di Sé e quella che permette a noi di fare su di Lui e a Suo nome.


Il martirio, grazia che Dio concede agli inermi e che nessuno può pretendere, è un gesto insuperabile di unità e di misericordia. E’ la sconfitta di ogni eclissi di Dio, è il Suo ritorno in pienezza attraverso l’offerta della vita da parte dei Suoi figli. Una consegna di sé che vince il male, perfino quello «ingiustificabile», perché ricostruisce l’unità, anche con colui che uccide. Come Gesù prende il nostro male su di Sé perdonandoci in anticipo, così il martire, come Padre Christian, abbraccia in anticipo il suo carnefice in nome del dono di amore di Dio stesso, da tutti riconoscibile almeno come assoluto trascendente.


Solo la testimonianza degna di fede com-muove la libertà dell’altro e lo invita con forza alla decisione. Come ha ricordato efficacemente Benedetto XVI, si diventa testimoni quando «attraverso le nostre azioni, parole e modo di essere, un Altro appare e si comunica». I monaci di Thibirine destano e commuovono perché nella loro testimonianza Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell'uomo.


Card. Angelo Scola, Patriarca di Venezia
 
pubblicato su [LASTAMPA.it] 22 ottobre 2010

leggi anche: Uomini di Dio