Vincent Van Gogh - Notte stellata sul Rodano - particolare (Musée d’Orsay, Parigi)

06 marzo 2012

«Perché è umano, troppo umano»

Questo bell'articolo di Frangi su Schifano capita a fagiuolo come si suol dire.
Proprio sabato il mio amato nipotino che tra tre mesi compie 4 anni, mentre si dilettava a dipingere a modo suo con i pennarelli, mi ha regalato l'ultima sua opera, un prato fiorito, dicendomi:l'erba è un po' alta ma si vedono i fiori.
L'ho guardato stupefatta e ho esclamato: ma questo è uno Schifano! E lui: nonna non si dice così. Ma no adesso ti spiego e così io e la mamma gli raccontiamo di Schifano e lo portiamo a vedere un campo di Schifano a casa di una nostra amica.
E lui, tranquillo e beato come solo i bimbi san fare dice all'amica: appendi anche il mio vicino!


di Giuseppe Frangi, tratto da [Tempi.it]

Perché Mario Schifano? Tra gli artisti italiani dell’ultimo scorcio di Novecento non è quello internazionalmente più conosciuto. E quindi non è neppure tra quelli corteggiati dal mercato. Nei suoi confronti la critica ha mostrato sempre simpatia, ma sempre mantenendo una punta di irriducibile riserva riguardo alla sua affidabilità, sia come persona sia come artista. La sua produzione sempre così irregolare, la sua biografia un po’ borderline (diceva: «Quando a Roma hanno bisogno di un titolo sul giornale, vengono a casa mia e mi arrestano per detenzione di stupefacenti. Lo sanno tutti che io non nascondo niente»), ne hanno fatto una figura un po’ collaterale ai fenomeni che contano. Dovessimo tracciare un parallelo, viene senz’altro in mente il nome di Pasolini: come lui era disallineato rispetto ad ogni collocazione culturalmente ortodossa. Era un fuori schema.

Per questo, dovendo scegliere un artista italiano da inserire in questo percorso attraverso i grandi (e anche discussi) nomi dell’arte contemporanea proposto da Tracce, ci è sembrato non banale andare su di lui. Schifano per altro ha una caratteristica interessante che lo definisce: è un artista visceralmente italiano. Per quanto abbia certamente assimilato e metabolizzato, ad esempio, il linguaggio della pop art, non si è mai omologato a quella o altre visioni d’importazione. Alla fine, la cifra ultima è sempre sua, anche nell’incertezza, anche dove non riesce. Ed è difficile trovare altra definizione di quella cifra che è un po’ il timbro di tutta la sua avventura artistica, se non chiamandola bellezza. Tutto in Schifano porta lì, frutto di una grazia che scaturisce dalle sue mani e dai suoi colori.

Per cominciare va detto che Schifano è sempre stato pittore nel senso più totale e quasi vocazionale del termine. «Voglio dipingere la pittura», diceva di sé. Intendendo con questo di essere consapevole che la pittura poteva essere portatrice di una felicità che era connessa non tanto con quello che veniva rappresentato, ma con la sua stessa natura, di gesto, di colore, di apparizione inimmaginata. Non c’è mai presunzione intellettuale nel suo lavoro, ma una fiducia senza riserve nel mezzo amico. Ha raccontato la moglie Monica De Bei (che era stata anche sua allieva): «...era molto veloce, senza ripensamenti. Era meraviglioso quando già alla prima stesura del colore di base sulla tela vedevi con chiarezza che sarebbe uscito un quadro pulito. Era pericolosa quella felicità di esecuzione, ti dava l’illusione che anche tu avresti potuto esprimerti così semplicemente». E poi: «Mario non leggeva mai quello che i critici scrivevano sulla sua pittura, diceva: “Spero sempre di fare quadri senza inutili volontà di spiegazioni”... Vivere il suo lavoro era assolutamente diverso che osservarlo poi oggettivamente in una galleria o in un museo, e Mario era la sua pittura».

Sono importanti quelle parole che la moglie Monica sottolinea con i corsivi. «Uscito», innanzitutto: indica che la pittura di Schifano scaturisce da dentro. Non è progettata, non è calcolo, come se chi la realizza non ne avesse il possesso, ma ne fosse soprattutto posseduto. È l’alba di una fantasia, ha scritto efficacemente Sandro Parmiggiani. Che aggiunge: «La sua pittura è un darsi totalmente delle mani e del corpo». «Pulito»: la seconda parola suggerisce questo scarto inspiegabile tra la confusione e il disordine che era la condizione dello studio, ma anche della sua vita e la purezza che si generava nelle sue opere. Uno scarto tanto imprevedibile quanto rivelatore. Infine, «vivere»: per Schifano dipingere era come respirare. E questo spiega la quantità incredibile di lavori che ha lasciato dietro di sé, quella sorta di voracità dello sguardo che lo portava a cercare di portare tutto in pittura; c’è una frenesia che sfida quasi la stessa capacità dell’occhio di intercettare le cose. «C’è in ogni sua opera brivido di movimento, fremito di ribellione contro il rischio della decorazione, c’è vita, mai staticità, morte», scrive sempre Parmiggiani. Ma c’è anche la leggerezza di chi sa che non si potrà mai essere sazi, che non c’è punto di approdo o di chiusura del discorso. «La pittura è la mia maniera di esistere», confidava Schifano. Così la sua pittura non aveva altre pretese che non quella di vivere, di essere.

Schifano, naturalmente, ha attraversato in pieno la sua epoca e le sue stagioni artistiche risentono di continue contaminazioni, a partire dagli inizi così segnati dall’idea di andare oltre le immagini, di creare con i quadri delle situazioni e non più delle semplici rappresentazioni della realtà. Poi c’è la stagione della pop art all’italiana, contemporanea a quella americana: anche Schifano più che opporsi al dilagare del nuovo immaginario consumistico, lo fa suo, lo metabolizza. Ci sono i complicati anni Settanta, da cui non si sottrae, come dimostra quel suo celebre ciclo Compagni compagni in cui con leggerezza cerca di intercettare il meglio di quell’esperienza, il suo slancio umano, la sua carica di libertà.

Anche gli anni Ottanta vedono Schifano allineato, questa volta nel flusso vasto del ritorno alla pittura. Ma il suo accento ha una freschezza che lo tiene al riparo da qualsiasi spirito revanscista, o da un’arte che si rifugia nelle allusioni o nelle metafore. Il fatto chiave di quegli anni è la nascita del figlio tanto desiderato. Marco viene alla luce nel 1985, e per Schifano rappresenta un punto di scaturigine creativa impressionante. Non solo. L’arrivo del figlio mette a nudo il suo cuore poetico, lo scopre in maniera definitiva, lo libera. Nel 1965 Schifano aveva dipinto un quadro famoso che era un preludio di questa sua stagione finale. Io sono infantile era come una dichiarazione poetica e umana insieme. Era una sorta di coming out, un’ammissione della propria condizione di pittore disarmato dal punto di vista degli strumenti culturali. Schifano, in particolare quello dopo il fatidico 1985, è uno Schifano che procede con gli occhi sgombri del bambino. La sua mente si apre a tutte le cose senza mai schedarle. Il mondo sembra sempre stupirlo, tant’è vero che quando lo trasforma in pittura (perché Schifano trasformava in pittura tutto quel che toccava), è come se rappresentasse un mondo mai visto. Un mondo appena nato.

C’è una grande tenerezza in tutta l’ultima stagione di Schifano, una tenerezza che neanche il disordine e i disastri connessi alla sua vita riescono a incrinare. Negli ultimi anni diversifica anche i linguaggi, vive con la televisione sempre accesa, fotografandola come per non farsi scappare frammenti che vorrebbe conservare nel suo immenso catalogo della vita. Tappezza la sua esistenza di immagini, con la curiosità di un bambino e insieme con l’ansia di un innamorato che non vuol farsi scappare nulla e vuole abbracciare tutto ciò che la vita gli porta incontro. Srotola colori sulle tele, in un esercizio continuo di libertà e fantasia, annodando e associando pezzi di realtà. Riaffiora anche la luce del suo Eden perduto, quella Libia in cui era nato nel 1934 e dove aveva vissuto tutta la sua infanzia: riaffiorano il sole sfolgorante, lo slancio delle palme, la purezza della sabbia. Ma non è un passato subito come nostalgia. «Io vivo nel presente e nel futuro», diceva. «Non accetto i ricatti del passato».

Schifano così traghetta uno sguardo innocente e insieme profondo da una generazione all’altra; da quella del padre archeologo, attraverso la sua, sino a quella del figlio Marco. Alla pittura Schifano chiede di fare da raccordo, come un inesausto atto d’amore. L’essenza della pittura per lui è la generosità, ben più decisiva della coerenza o della correttezza formale.
Quando una volta gli avevano chiesto perché continuasse a fare quadri, la sua risposta è stata la più bella che da un pittore ci si possa aspettare: «Perché è umano, troppo umano».

Fare il ritratto a Dio


In una classe elementare c'è una bambina di sei anni che non presta mai attenzione, tranne che quando si disegna. Quando viene il momento di disegnare la bimba è capace di acciambellarsi sul foglio lasciando tutto il resto del mondo fuori. La maestra le chiede cosa stia disegnando e la bambina senza guardarla, ma continuando a disegnare le risponde: «Sto disegnando un ritratto di Dio». La maestra, stupita commenta: «Ma nessuno sa a cosa somigli Dio». La bambina risponde: «Lo saprà fra un minuto».

Questa storia mi sembra rappresenti magnificamente l'introduzione al percorso sul senso religioso. Questa bambina cerca Dio e lo fa attraverso il suo talento: il disegno. Il resto non le interessa. E lei sa che può riuscire a ritrarre Dio, a dispetto della diffidenza della maestra. Il senso religioso di quella bambina è vivo e autentico. Lei crede, perché crede nel disegnare e nel disegnare pone le domande ultime di ogni cuore umano.

«Se vi ho parlato delle cose terrene e non credete, come crederete se vi parlerò delle cose celesti?» (Gv 3.12). Non c'è frase del vangelo che forse io ami di più di questa. Non c'è frase del vangelo che spieghi meglio di ogni altra cosa sia il senso religioso. Come dice la stessa parola si tratta di un vero e proprio senso, come i cinque sensi, ma con il pregio di riunificare in uno spazio unico: sensi, cuore, mente. Gesù si lamenta con i suoi interlocutori della loro incapacità di credere alle cose della terra, prima ancora di quelle del cielo, e della impossibilità di spiegare quelle del cielo senza aver prima creduto a quelle della terra. Come si può far crescere la vita dello spirito se prima non si abbraccia con fede assoluta la terra? In fondo Cristo stesso è questa risposta. Si fa carne perché impariamo a credere alla carne. Si fa uomo perché impariamo a credere nell'uomo.

Spesso i miei alunni si stupiscono quando parlo della fede in termini di conoscenza di un amico, di un amore profondo per una persona. Se non si ha “il senso” della relazione con Dio la fede è ridotta a morale, condotta, prassi. In fondo è impossibile credere perché non si vede, non si tocca, non si annusa Dio. Hanno ragione. Ma il loro punto di vista è ristretto. Non hanno ancora scoperto che per credere in Dio bisogna prima credere alle cose della terra. Se non credi nei tuoi talenti, nella tua capacità di ragionare, di amare, se non ti appassioni a qualcuno e a qualcosa, come puoi mai accedere alle domande ultime che poi aprono la strada alla vita dello spirito.

Spesso viviamo la fede come una serie di pratiche che ci consentono di essere buoni. Invece la vita dello spirito è molto più reale della rivista che avete in mano. È la presenza della vita della Trinità in noi e di noi dentro quella vita. Senza questa realtà non avreste in mano quella rivista, perché non ci sareste. Tutto questo è così vero e radicale che non lo vediamo. Come l'aria che respiriamo: diamo per scontato che ci sia, ma senza non potremmo vivere. È proprio quando le cose diventano ovvie che abbiamo smesso di porci domande su di esse.

La vita dello spirito ha le sue leggi come quella del corpo. Ha bisogno di essere nutrita e accudita. Ma questo per noi fatti di corpo, di un corpo spiritualizzato, o di uno spirito nella carne, è possibile solo attraverso il corpo e la carne. Per questo abbiamo bisogno di credere alle cose della terra, perché sono l'unica via di accesso al senso religioso.

“Senso” in italiano vuol dire non solo “apparato sensoriale”, ma anche “direzione” e “significato”. Chi non crede nelle cose della terra, non arriverà mai a cogliere il significato delle cose della terra, né tanto meno a cogliere la direzione da dare ad esse e alla propria vita immersa in esse.

«Voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita in senso non ce l'ha». Così cantava Vasco qualche anno fa. Trovare il senso alla vita è usare i sensi per credere alla vita, solo così le cose della vita, il suo essere così attaccata a me da darla per scontata, si aprirà al significato che essa ha e mi catapulterà nella domanda di ogni pastore errante su questa terra: ed io che sono? Solo i sensi aperti al dialogo con la Luna, il suo credere alla Luna e ai suoi movimenti regolari, lo costringono alla domanda sul senso delle cose. Ecco che il senso religioso, una specie di orecchio, naso, occhio, pelle, lingua interiori coglieranno la risposta di una creazione che è dono, di una carne che è tempio della Trinità, la risposta capace di dare una direzione, un senso, a quella vita.

La vita ha senso proprio perché non glielo diamo noi, ma perché emerge da sé stessa, dal dna che la Trinità ha impresso nelle cose. Ogni cosa, ogni persona dice: io sono dono per te. Ogni cosa ogni persona dice: io voglio essere amata. Ma riusciremo a non sospettare delle cose, delle persone, della realtà, di noi stessi? Riusciremo a credere nelle cose della terra? Solo questa fede a tutti accessibile ci porterà a credere nelle cose del cielo.

Per questo Giussani può dire nell'introduzione del volume secondo del PerCorso: «Tutti gli impeti con cui l'uomo è spinto dalla sua natura, tutti i passi del moto umano – moto cosciente e libero –, tutti questi passi, cui lo slancio originale induce l'uomo, sono determinati, resi possibili e realizzati in forza di quell'impulso globale e totalizzante che è il senso religioso...» e la vita umana «risulta perciò progetto sviluppato da quell'impeto globale, del senso religioso».

Noi siamo chiamati alle domande ultime come quella bambina e troveremo risposta attraverso il nostro disegnare, attraverso quello che siamo e amiamo. Attraverso le cose della terra crederemo e faremo il ritratto a Dio. E scopriremo che era un autoritratto.

Di Alessandro D'Avenia, tratto da [Tracce.it] 2 marzo 2012