Vincent Van Gogh - Notte stellata sul Rodano - particolare (Musée d’Orsay, Parigi)

27 dicembre 2010

A che serve un Dio bambino?


Che bisogno abbiamo oggi, nel 2010, di un Dio bambino? In che senso è capace di darci un futuro perché possiamo guardare in avanti pieni di una speranza che Benedetto XVI ha definito “affidabile”?

L’annuncio del Natale quest’anno ci trova accorati e sgomenti di fronte ai numerosi segnali di malessere del corpo sociale cui apparteniamo. Durante la loro dolorosa ed estrema protesta, gli operai della Vinyls mi hanno detto: «Per noi il Natale non esiste se non esiste un futuro di lavoro», e si può ben capire questo loro dubbio angoscioso.

E cosa pensare dei giovani che, spesso ingannati circa la natura del desiderio che apre l’uomo alla realtà piena, si ritrovano senza ideali da difendere e senza prospettiva per il futuro? Da questo vuoto noi adulti non possiamo certo chiamarci fuori, spesso complici di una società che l’allarmante ultimo Rapporto Censisdefinisce “fragile, cinica, passivamente adattativa, condannata al presente”.

Paradossalmente è proprio qui che si incarna il Natale: Dio non ha avuto paura di “impastarsi” con le contraddizioni proprie della condizione umana. Diventando a noi familiare, più intimo a noi di noi stessi - come dice il grande Agostino -, ci sostiene nella dignità dei nostri affetti, del nostro lavoro e del nostro riposo. Ma la modalità con cui il Figlio di Dio viene a salvarci non è un rito magico, un meccanismo estrinseco e a noi estraneo: l’evento del Natale mette in moto la libertà degli uomini e quindi la loro responsabilità.

Perciò, tanto più in un momento di grave travaglio - non solo economico e politico - come quello che stiamo attraversando, il Natale ci urge a un risveglio, a un soprassalto di densità umana, che consiste nel “vivere relazioni buone come strada per costruire pratiche virtuose”.
Da dove cominciare? Dalle relazioni elementari e costitutive: i papà e le mamme offrano ai figli un senso chiaro della vita, una direzione di cammino. E che la scuola e tutte le altre agenzie educative facciano altrettanto. Nel mondo del lavoro e dell’economia il primato dell’uomo e della sua dignità si documenti dentro la quotidiana concretezza della vita relazionale. Questo domanda un equo profitto, che per la maggior parte dovrà essere reinvestito nell’impresa al cui utile, a vari gradi, possano partecipare tutti i dipendenti. La finanza dovrà tornare alla sua funzione originaria: assicurare futuro alla economia reale.

Servono politiche familiari efficaci e politiche immigratorie realistiche, ma magnanime, impegno serio per sconfiggere la miseria nel mondo e favorire la pace, difesa dell’effettiva libertà religiosa contro esecrande persecuzioni. E si potrebbe continuare l’elenco.

Sono segnali che urgono un’inversione di marcia - in termini cristiani si chiama conversione - per cui l’altro non sia vissuto come un potenziale nemico o come uno da cui difendersi e isolarsi, ma piuttosto come una risorsa, una grande occasione di maturazione e di crescita.

Il mistero del Natale ci dice che Dio, l’Altro per eccellenza, ha lasciato alle spalle la sua gloria per farsi racchiudere nell’umanità tenera e fragile di un bambino. «Perché la debolezza divenisse forte la fortezza si è fatta debole» (Agostino).

Per amore dell’uomo, Dio scende dal cielo e viene sulla terra. Nella sua vita in mezzo a noi, nelle relazioni buone e nelle pratiche virtuose instaurate con i suoi amici, Gesù ci ha mostrato il tipo di uomo da lui proposto. Un uomo capace di gratuità, uno cioè che ama per primo, senza pretendere nulla in cambio, che si commuove profondamente davanti al bisogno altrui - pensiamo alle guarigioni da Lui operate -, un uomo che, di fronte al nostro radicale bisogno di salvezza, dà la sua vita in croce per noi.
Dal Santo Natale ci arriva la pro-vocazione a non vivere più come se Dio non ci fosse familiare. Prendiamola sul serio, come fece Maria, come fece Giuseppe. In lui si vede bene quale sia la statura di un uomo che vive con Dio. Il modo misterioso e inaudito del concepimento di un figlio da parte della donna destinata a essere la sua sposa non diventa, per Giuseppe, un’obiezione ad amare, ma un’occasione per amare più profondamente.

Come ha detto domenica scorsa all’Angelus papa Benedetto, «in lui si profila l’uomo nuovo, che guarda con fiducia e coraggio al futuro, non segue il proprio progetto, ma si affida totalmente all’infinita misericordia di Colui che… apre il tempo della salvezza». Buon Natale.

Card. Angelo Scola, tratto da [ilsussidiario.net] 24 dicembre 2010

11 dicembre 2010

Traccia di Dio

Del Amo Montserrat, Traccia di Dio, Piccola Casa Editrice

Traccia di Dio è il nome di un angelo, piccolo piccolo, non molto forzuto e che sapeva volare a stento. Che cosa poteva fare di buono? Nulla, pensavano gli altri angeli mentre lo guardavano goffamente aggirarsi per il firmamento.
Ma un giorno, proprio in concomitanza con la notte di Natale, la notte più importante dell’anno, ecco che il suo valore fu svelato a tutti…
Traccia di Dio è un racconto realizzato dalla scrittrice spagnola Monserrat del Amo. L’edizione italiana è stata realizzata da Piccola Casa Editrice all’interno di un progetto editoriale in collaborazione con Associazione Cometa, un luogo nato per accogliere ed educare bambini e ragazzi attraverso la condivisione quotidiana di tutti i loro bisogni – dall’affido familiare allo studio fino alla formazione professionale.

27 novembre 2010

L'icona di Cristo Pantocratore

Il mio amico Bruno, in arte "vinoemirra" blogger scherzoso e impenitente nonché eccellente medico, ha pubblicato un post tra i più belli che ho letto sul suo blog, lo propongo anche a voi perché ne vale la pena.


Eccovi una versione recente dell'icona



L'icona del don

Pare che questa sia la società dell’immagine.
La comunicazione, in primis, è immagine: la tv spadroneggia, nessuno la ascolta e tutti la guardano;
i titoli dei giornali tradiscono il testo dell’articolo, si sa: tanto vale guardare la foto a colori in centro pagina.
Ed ecco risaltare la brillantina del premier, il lifting dell’attrice, le forme rifatte della soubrette.
L’importanza dell’immagine, però, è tutto tranne che una acquisizione recente.
Ci pensavo osservando un’icona di Cristo Pantocratore.
Il mio don dice che c’è tutto un vangelo in questa sola immagine.


- Oddio, bella è bella ma…
  don, non ti sembra di esagerare?


- Niente affatto: siamo talmente abituati a vedere immagini che non le sappiamo più guardare davvero.
Prendi ad esempio questa icona, un  busto del Cristo benedicente con il Vangelo.
Punto e basta?
Ce ne sono tante.
Tutte uguali?
Mica tanto.
Questo è  Cristo Pantocrator (dal greco “Pan” cioè tutto e “Kratos” potere.
Cristo governa tutto l’Universo.

- Vabbè,  don, mica mi incanti col "grecorum"... la potevano chiamare altrimenti…

- Zitto, miscredente!
I lineamenti storici del Cristo adulto vogliono testimoniare l'autenticità dell'Incarnazione, e la Redenzione attraverso il sacrificio della Croce viene inscritta nel nimbo insieme con la rivelazione del nome divino di Es 3,14: O N ( " Io Sono Colui che Sono " ).
“Io Sono” è il nome di Dio, secondo Mosè, e qui è attribuito a Gesù;
a lui si piegano tutte le lettere greche dell’acronimo, per rendere omaggio al Sovrano Giudice.
 

­- ehm… scusa, don… “nimbo”? Nimbo kid?

- ‘gnorante!
Il nimbo (ovvero stichos o clavus), è il cerchio inscritto attorno al capo di Cristo, che riceve la luce divina e la rimanda..
Attorno al volto sono poste le abbreviazioni greche ICXC per il nome "Gesù Cristo ".

- E, don… tutto quest’oro?
Non siamo noi per una chiesa povera?


- Povero me!
L’oro è simbolo di regalità, è ovvio!
E poi questo sfondo così… luminoso, non ti dice proprio nulla?


- La luce!

- Certo che sì, Cristo è la luce che vince le tenebre.
Vatti a rileggere il prologo del Vangelo di Giovanni, o anche la sua prima lettera.

"In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;

la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l'hanno vinta."

E ancora
"Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo"


Qui tutto è luce, una Luce divina soprannaturale, rivelata dal Redentore ai discepoli sul monte Tabor: “E si trasfigurò davanti a loro;  il suo volto divenne brillante come il sole, e le sue vesti bianche come la luce”.

- E ok, don, ok.
Però quello sguardo….
Che vuole questo da me?


- Bella domanda.

- Questo volto maestoso e grave, questi occhi penetranti, ti fissano.
Ti ricordi lo sguardo di Gesù, quando guarda il giovane ricco?
Guardatolo, lo amò, dice il vangelo. E lo sguardo che Gesù riserva a Pietro subito dopo il triplice tradimento? Basta a far fuggire il discepolo e ad annegarlo nel pianto.
Qui invece accenna un sorriso: affanno, dubbi, dolori, tutto scompare.
Rimani solo con lui e hai la sensazioni che non manchi più nulla.

- E poi, guarda meglio: il volto è costruito entro due centri concentrici.
Il primo, centrale, più piccolo, comprende occhi e naso.
E’ un cerchio di luce.
Risplenda su di noi Signore la luce del tuo volto” (Sal 4,7)

- Gli occhi sono la porta della luce sul mondo.
Il meccanismo fondamentale della conoscenza.
E chi è che conosce se non Dio stesso?
“La lucerna del tuo corpo è il tuo occhio; se il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce” (Mt 6,22).

Nel naso invece soffia lo Spirito del Dio vivente, che scende a gonfiare il collo.
Questo primo cerchio indica la natura divina di Gesù.

Il secondo cerchio del volto, invece, comprende la bocca, ma anche la barba ed i capelli. Qui c'è molta meno luce.

- Va bè.
E allora?


- Dai!
E’ facile!
La bocca serve a mangiare, no? Rimanda alla carne, no?
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;


Gesù assume in pieno la nostra umanità, con i suoi limiti, la necessità di mangiare (la bocca), la necessità di coprirsi (capelli e barba).
C’è il sapore dell’esistenza umana nella sua totalità.
Ci sei anche tu, con la tua storia e il tuo dolore.

I due cerchi sono il connubio fra Cielo e terra.
Nei due cerchi concentrici si fondono le due nature, umana e divina.

- Mmmmmmhhhh interessante.

- Oh, ma c’è dell’altro, sempre nel volto, da osservare.

- Ancora?

- Ti faccio uno scherzetto.
Copro con un foglio la metà sinistra del volto di Gesù.
Cosa vedi?

- Il lato destro della sua faccia è sereno, imperturbabile.
Misericordioso direi; trasmette Pace divina; l’intensità dello sguardo di un Dio che non ci abbandona mai.

- Ti ricorda niente?
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: "Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo…

- Ora copro la metà destra della faccia di Gesù.
Che vedi?

- E’ diversa!
Sembra uno che gli hanno pestato un callo!


- Mettiamola così.
E’ il volto dei dispiaceri, di uno che condivide la sofferenza del genere umano;
Ma è anche lo sguardo severo del Dio giudice.
Lo sguardo di chi dice “…a quelli che saranno alla sinistra: "Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli..."

Una descrizione bizantina di questa icona dice: “i suoi occhi sono allegri e danno il benvenuto a coloro che non sono rimproverati dalla propria coscienza, ma per coloro che sono condannati dal loro proprio giudizio diventano adirati ed ostili.”

Unisci la faccia che ne risulta è una singola persona, Gesù Cristo.
La gloria di Dio risplende sul Suo volto». 2 Corinzi 4,6.

Questo volto si solleva dal tempo, è come teatro di una storia che ci ha coinvolti tutti, trovandoci ora accusati, ora accusatori. Ora vittime, ora carnefici.

- Accidenti, don!
Tutta questa simbologia!
Chi l’avrebbe mai detto.


- E non è finita.
L’asimmetria del volto si ripercuote nell’asimmetria delle vesti: un manto verde-blu, sulla sinistra di Gesù, simboleggia la sua natura umana che va a coprire la tunica rossa, simbolo di divinità regale.
Un classico delle icone.
La madonna, facci caso, ha colori invertiti, blu sotto e rosso sopra: l’umano che si fa divino.


- Sta a vedere che adesso mi dici che ci sono dei simboli anche nelle mani…

- Proprio così!
Nella mano destra, benedicente,  il pollice e l’anulare si uniscono lasciando l’indice diritto, formando l’anagramma di Cristo (IC).
Inoltre le due dita che si toccano indicano la raggiunta unione in Cristo della natura umana e di quella divina, con il divino che si abbassa al massimo per farsi incontro all’umano che invece si tende in alto per quanto a lui possibile.

- La mano ha una valenza simbolica molto forte, quando la mano di Dio tocca l’uomo questi riceve in sé la forza divina.
Egli ci Benedice benedicendo la nostra vita, la nostra quotidianità e ci ricorda che è sempre con noi …….
Io ho posto le mie parole sulla tua bocca, ti ho nascosto sotto l’ombra della mia mano, quando ho disteso i cieli e fondato la terra, e ho detto a Sion: “Tu sei mio popolo”……(Isaia 51,16).

- E che mi dici del libro nella sinistra?

- Il libro, con i suoi sigilli intatti rappresenta il centro del paradiso e nell’apocalisse viene identificato con l’albero della vita.
«Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione» (Apocalisse 5,9).
Il libro chiuso significa che cela il suo segreto e ci rimanda a Gesù che è la chiave di tutte le cose segrete; è tenuto ben saldamente ed ha una copertina ricca di ornamenti preziosi …. Beato l’uomo che ha trovato la sapienza e il mortale che ha acquistato la prudenza, perché il suo possesso è preferibile a quello dell’argento e il suo provento a quello dell’oro. Essa è più preziosa delle perle e neppure l’oggetto più caro la uguaglia ……… (Proverbi 3,13-15).


- Don, basta, per carità.

- No. No che non basta.

- No? Cosa c’è ancora?

 
- C’è che davanti a un’icona come questa, non si può non pregare.

Facciamolo insieme, con le parole di Andrea di  Creta:

"mi scruti e mi conosci, o mio Giudice,
assieme agli Angeli verrai
a giudicare l' universo.
In quel giorno volgi a me
uno sguardo d'amore
e fa grazia, o Gesù,
a un peccatore che confini
non conobbe al suo peccato.

Pietà di me, o Dio, pietà di me."





Salvatore del Chilandari (Hilandar) - Monte Athos Icona di scuola serba, XIII Secolo, cm 1290×90

21 novembre 2010

Preghiamo per i cristiani in Iraq

Comunione e Liberazione aderisce all’appello dei Vescovi italiani a pregare domenica 21 novembre per i cristiani dell’Iraq, «che soffrono la tremenda prova della testimonianza cruenta della fede» (Comunicato finale dell’Assemblea CEI, 11 novembre 2010).
Il movimento invita tutti i suoi aderenti a partecipare alle messe secondo le intenzioni di Benedetto XVI, che il giorno dopo il gravissimo attentato nella cattedrale siro-cattolica di Bagdad che ha causato decine di morti e feriti, ha detto: «Prego per le vittime di questa assurda violenza, tanto più feroce in quanto ha colpito persone inermi, raccolte nella casa di Dio, che è casa di amore e di riconciliazione. Esprimo inoltre la mia affettuosa vicinanza alla comunità cristiana, nuovamente colpita, e incoraggio pastori e fedeli tutti ad essere forti e saldi nella speranza. Davanti agli efferati episodi di violenza, che continuano a dilaniare le popolazioni del Medio Oriente, vorrei infine rinnovare il mio accorato appello per la pace: essa è dono di Dio, ma è anche il risultato degli sforzi degli uomini di buona volontà, delle istituzioni nazionali e internazionali. Tutti uniscano le loro forze affinché termini ogni violenza!» (Angelus, 1 novembre 2010).
Rivolgendosi a tutti gli aderenti a Comunione e Liberazione, don Julián Carrón ha detto che «la partecipazione alle messe domenicali secondo le intenzioni del Papa e dei Vescovi è un gesto di comunione reale e di carità perché sentiamo come nostri amici i cristiani dell’Iraq, anche se non li conosciamo direttamente».
Come dice don Giussani, «se il sacrificio è accettare le circostanze della vita, come accadono, perché ci rendono corrispondenti, partecipi della morte di Cristo, allora il sacrificio diventa la chiave di volta di tutta la vita […], ma anche la chiave di volta per capire tutta la storia dell’uomo. Tutta la storia dell’uomo dipende da quell’uomo morto in croce, e io posso influire sulla storia dell’uomo - posso influire sulla gente che vive in Giappone adesso, sulla gente che sta in pericolo sul mare adesso; posso intervenire ad aiutare il dolore delle donne che perdono i figli adesso, in questo momento -, se accetto il sacrificio che questo momento mi impone» (L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, pp. 389-390).
Per questa ragione, ha aggiunto Carrón, «se un gesto di preghiera può influire sul cambiamento della gente in Giappone, può cambiare qualcosa anche in Iraq. Il sacrificio che facciamo per i cristiani iracheni e la preghiera di domenica siano un gesto con cui invochiamo, imploriamo da Dio la protezione per loro». 
L’ufficio stampa di Cl
Milano, 18 novembre 2010



Regione Lombardia contro la persecuzione dei cristiani 
di Matteo Castelnuovo, tratto da [Tempi.it]18 novembre 2010

«Salviamo la vita dei cristiani in Iraq e nel mondo». Con questa scritta di 20 metri per 20, visibile da oggi per un mese sulla facciata del Palazzo Pirelli (lato piazza Duca d'Aosta), e con una lettera indirizzata al presidente dell'Assemblea e al segretario generale dell'Onu, la giunta di Regione Lombardia e il suo presidente, Roberto Formigoni, vogliono «scuotere l'indifferenza di tanti nei confronti delle persecuzioni in atto in varie parti del mondo contro i cristiani».

Sono molti, infatti, gli episodi riportati dalle cronache degli ultimi giorni che lo attestano.
Dalla strage irachena del 31 ottobre, quando un gruppo di fondamentalisti islamici ha assaltato la cattedrale siro-cattolica di Baghdad, uccidendo 52 fedeli, agli altri due fedeli uccisi il 7 novembre sempre a Baghdad. Louay Daniel Yacoub, 49 anni, era davanti all'ingresso del suo appartamento quando degli sconosciuti lo hanno freddato a colpi d'arma da fuoco. Un altro cristiano è stato ucciso lo stesso giorno ma di lui non si conosce ancora l'identità. Fino alla sentenza del tribunale del distretto di Nankana, in Pakistan, che ha condannato a morte Asia Bibi, 45 anni, accusata di blasfemia. Ad oggi nessuna condanna per blasfemia è stata eseguita, ma si sono verificate decine di esecuzioni sommarie e linciaggi.

«Studi recenti – ha detto Formigoni ai microfoni dei giornalisti – dimostrano che le persecuzioni religiose sono in aumento e il 75% di queste
sono rivolte verso i cristiani. Regione Lombardia vuole reagire a questa situazione e inserirsi nel dibattito che speriamo prenda quota su questi temi, stimolando iniziative forti da parte della comunità internazionale per abbattere il muro di indifferenza».

Un’incuranza che non deve più perpetrarsi, anche sotto il profilo di una necessaria reciprocità tra gli stati, come ha sottolineato il vicepresidente lombardo Andrea Gibelli: «Ci sono paesi in cui la libertà religiosa, diritto sancito in termini assoluti dalle Carte internazionali, non viene osservata. Molti cristiani in Africa e Medio Oriente sono costretti a emigrare perché vengono considerati cittadini di serie B e il fatto che ci siano persone che devono abbandonare i propri paesi per questa ragione è intollerabile». Un punto quest’ultimo che vuole sottolineare anche quanto sia importante nel 2010 che l'uomo sia al centro dell'interesse e non ci si occupi solo di parametri di natura economica.

Ascolta le interviste a Roberto Formigoni e Andrea Gibelli

13 novembre 2010

Famiglia, come la pensa il partito Fli

Fini un mese fa ha abbandonato il PdL e ha fondato un nuovo partito con i suoi fedelissimi: Futuro e Libertà (Fli).
Gianfranco Fini, interrogato da più parti, non è nemmeno riuscito a fornire agli italiani una valida spiegazione della vicenda riguardante quella dimora di Montecarlo, figuriamoci come risponde quando è interrogato su cosa intende fare per il bene comune. Se dovessi scrivere una vignetta su Fini la battuta è d'obbligo: quale "bene comune"?
Mi domando cosa vuole fare quest'uomo: sostituirsi a Berlusconi sperando che tutti confluiscano nel suo partito? Intanto prima di cercare di dare il colpo di grazia al premier (occorre vedere se ci riesce), tenta di riallacciare i rapporti con Casini dell'UdC, ma con gli argomenti che intende sostenere, la vedo dura, Casini su queste cose è tutto d'un pezzo.
Come avrete capito, cosa ne pensano i politici sulla famiglia mi interessa molto, eccovi alcune anticipazioni, grazie alla lettera di un lettore ad Avvenire, scopriamo un po' come la pensa il Fli sulla famiglia e leggiamo la risposta del direttore.




Un rischioso futurismo familiare

Caro direttore,
le cito un passaggio dal discorso di Fini a Bastia Umbra: «...Bianchi e neri; cattolici, ebrei e musulmani; uomini e donne; eterosessuali ed omosessuali; italiani e stranieri: qualsiasi persona, la persona umana, senza distinzioni e discriminazioni, deve essere al centro dell’azione della politica e avere la tutela dei propri diritti...».
Poi, a seguire: «...In Italia dobbiamo colmare il divario e allinearci agli standard europei sulla tutela tra le famiglie di fatto e quelle tradizionali...». E infine: «... Non c’è in nessuna parte dell’Europa, e lo dico a ragion veduta, un movimento politico come il Pdl che sui diritti civili sia così arretrato...». Nel novero dei diritti civili da tutelare va certamente ricompreso, per Fini, il diritto delle coppie omosessuali ad adottare figli. Perché le coppie eterosessuali sì e quelle omosessuali no? Anche questo è un sacrosanto diritto! In nome degli standard europei bisogna poi equiparare in tutto e per tutto le famiglie di fatto alle vecchie, tradizionali e scontate famiglie fondate sul matrimonio. Che cosa aspettiamo ad adeguarci a questi standard?
Credere ancora nella famiglia fondata sul matrimonio è un chiaro sintomo di arretratezza culturale...
Fabio Russo, Roma

Ed ecco la risposta al sig. Fabio Russo.

Capisco la sua amara ironia, gentile avvocato. E condivido la sua profonda perplessità: il «partito moderno» anzi «futurista» di Gianfranco Fini, ultima evoluzione della destra post-fascista faticosamente nata dalle ceneri del Msi­Dn, sta rivelando di portare nel suo Dna qualcosa di strutturalmente e – per quanto ci riguarda – di inaccettabilmente vecchio: la pretesa radicaleggiante di dividere il mondo in buoni e cattivi, in arretrati e progrediti culturalmente, sulla base di una premessa e di un pregiudizio ideologico. Il ronzio di fondo che accompagna le dichiarazioni del leader ricorda, poi, le sicumere dell’anticlericalismo proprio, con le sue ambizioni e le sue miserie, di una certa Italia liberale in tutto e con tutti tranne che nei confronti dei cattolici.
L’accattivante elenco finiano di differenze da comporre in giusta armonia – che lei opportunamente cita, caro amico – culmina per di più in affermazioni che con il rispetto delle diversità nulla hanno a che vedere e che teorizzano, piuttosto, l’ingiusto annullamento delle diversità. Un retorico elogio della confusione, all’insegna del più piacione dei relativismi.
Nonostante l’ostentato (e sarkoziano) richiamo all’idea di una «laicità positiva».
Spiace, infatti, constatare che il primo a fare le spese lessicali e programmatiche del riproporsi di un Fini-pensiero purtroppo già noto sia stato l’istituto della famiglia costituzionalmente definita (articolo 29), cioè quella unita regolarmente in matrimonio e composta da un uomo e una donna e dai figli che hanno messo al mondo o accolto in adozione.
Il neoleader di Fli e attuale presidente della Camera si mostra, insomma, pronto a ridurre la «famiglia tradizionale» a una possibilità, a una mera variabile in un catalogo di desideri codificati, manco a dirlo, secondo gli «standard europei».
Bizzarro, deludente e rischioso argomentare che si somma all’altrettanto pericolosa scelta di campo che l’ha indotto a osteggiare una legge – quella sul «fine vita», approvata in prima lettura al Senato e ferma alla Camera – tesa a scongiurare la surrettizia e anti-umana introduzione di pratiche eutanasiche nel nostro ordinamento.
Come potremmo non annotare e tenere in debita considerazione tutto questo?
E, proprio guardando al futuro oltre che al presente, come potrebbero non tenerne conto con lucidità i potenziali interlocutori politici di Fini? (mt)

07 novembre 2010

Vitalizi e Pensioni: c'è un Italia che vuole mantenere i benefici ingiusti

Notizie dalla politica!!!!!
Il giorno 21 settembre 2010 il Deputato Antonio Borghesi dell'Italia dei Valori ha proposto l'abolizione del vitalizio che spetta ai parlamentari dopo solo 5 anni di legislatura in quanto affermava cha tale trattamento risultava iniquo rispetto a quello previsto dai lavoratori che devono versare 40 anni di contributi per avere diritto ad una pensione.
Ecco com'è finita:

Presenti 525
Votanti 520
Astenuti 5
Maggioranza 261
Hanno votato sì 22
Hanno votato no 498

La notizia si commenta da sola.
Premetto che non sono dell'Italia dei valori e non voterò mai per il partito di Di Pietro, in ogni caso, tanto di cappello al deputato Antonio Borghesi.

17 ottobre 2010

C'è un'Europa che vuole eliminare la famiglia

Non avrei mai pensato che potessero accadere decisioni così assurde a salvaguardia di presunte forme comunicative scevre da discriminazioni di razza, sesso, religione ecc. Eppure come dice il giornalista è proprio evidente che è la famiglia quella discriminata, nei suoi valori fondamentali, nelle sue scelte, negli stimoli incoerenti con l'educazione trasmessa che i figli son costretti a subire.
Tempo fa, non ricordo neppure più di cosa stavamo discutendo ma l'argomento non era certo la famiglia, il mio capo se ne uscì con un'affermazione del genere: non voterò mai per questo governo e non sosterrò mai la legislazione italiana perché entrambe sono troppo familisti e sono la morte della persona.
Mi lasciò a bocca aperta e al momento non trovai neppure argomenti per replicare, anche perché stavamo parlando d'altro, ma questa uscita mi colpì molto e compresi appieno quanti danni può fare "sposare l'ideologia tout court".
                                                              **********

In Europa tira una preoccupante aria antifamilista.

di Gianfranco Amato
Tratto da [Il Sussidiario.net] 6 ottobre 2010


Il governo spagnolo ha irrogato una sanzione pecuniaria di 100.000 euro ad un’associazione cattolica denominata Intereconomía Corporación, che si occupa di comunicazione multimediale, per aver mandato in onda una campagna pubblicitaria televisiva in difesa dei valori legati al concetto tradizionale di famiglia.

Ciò che è stato ritenuto intollerabile dagli occhiuti censori ispanici del politically correct, è che l’immagine pubblicitaria, trasmessa 273 volte, mostrasse la scena di un gruppo di omosessuali durante la parata di un Gay Pride, e ponesse ai telespettatori una serie di domande, del tipo: «E’ questo il modello di società che desiderate?», «E’ questo l’esempio che vorreste per i vostri figli?». Inevitabile che venisse invocata la mannaia della legge spagnola che vieta forme comunicative discriminatorie basate su razza, sesso, nazionalità, religione ed opinione. Con buona pace del diritto di opinione dell’associazione cattolica multata.

La stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, peraltro, ha più volte affermato che la libertà di espressione rappresenta un pilastro essenziale di una società democratica, e che tale libertà non si applica solo alle idee condivisibili da tutti o ritenute inoffensive, ma anche ad espressioni che possono irritare, scioccare, dispiacere le autorità pubbliche o altri gruppi della popolazione. Anche la Corte Suprema della laicissima Francia, per esempio, con la recente sentenza n. 7-83. 398, ha stabilito, nel caso Vannest contro l’Associazione Act Up Paris, che l’affermazione secondo cui l’omosessualità è una condizione inferiore all’eterosessualità, non eccede i limiti della libertà di espressione.

In realtà, è proprio l’idea di difendere la famiglia tradizionale che è stata colpita dal provvedimento del governo socialista spagnolo. E non è soltanto una questione politica, poiché l’attacco alla famiglia in Europa sta assumendo, purtroppo, dimensioni trasversali. Mi viene in mente l’ultima trovata dell’impareggiabile Boris Johnson, sindaco conservatore di Londra, che lo scorso 3 luglio si è fatto vedere, sorridente e festante, alla testa del Gay Pride, in occasione del 40° anniversario del Gay Liberation Front (GLF), organizzazione che propugna l’eliminazione della famiglia.

Nel 1971 il GLF, allora considerato fuori legge, pubblicò un manifesto in cui si teorizzava lo sradicamento e l’abolizione dell’odiato istituto, identificato come la condizione di «un uomo in catene, di una donna schiava e di figli costretti a subire quei modelli». Da qui l’esigenza di una «cultural revolution» per archiviare definitivamente dalla storia dell’umanità l’idea stessa di famiglia.

Neppure la Chiesa veniva risparmiata dagli strali del manifesto, perché si imputava proprio agli «arcaici ed irrazionali insegnamenti» del cristianesimo la definizione regressiva e oscurantista del concetto di famiglia e di matrimonio. L’ignoranza gioca sempre brutti scherzi. Se gli attivisti del GLF si fossero informati, avrebbero scoperto che famiglia e matrimonio sono istituti ben antecedenti all’avvento del cristianesimo, e che le evolute civiltà classiche già ne conoscevano l’importanza.

L’idea che la famiglia fosse considerata una cellula della società e che il matrimonio fosse l’unione di un uomo e di una donna finalizzata alla procreazione, si perde nella notte dei tempi della civiltà umana. Se avessero studiato, gli stessi militanti del GLF, avrebbero saputo che gli unici due tentativi di abolire la famiglia attuati nella storia recente (il codice di famiglia sovietico del 1918 e l’organizzazione sociale dei kibbutz israeliani) si sono rivelati un tragico fallimento, al quale è stato subito posto rimedio.

Non è davvero soltanto una questione di fede. Il cristianesimo si è semplicemente limitato a riconoscere e valorizzare ciò che la ragione umana ha sempre percepito come un ineludibile fattore positivo. La famiglia come luogo dell’educazione all’appartenenza e al rapporto con l’altro, resta un elemento imprescindibile per la stessa coesione sociale dell’umanità.


16 settembre 2010

Questo è un paese dove il padre è assente

Argomento scottante questo dei papà separati, ho alcuni amici di cui conosco molto bene la situazione e devo dire che la vita dei papà separati è veramente difficile, sia in termini economici, ma soprattutto nel rapporto con i figli.
Ciò premesso ho letteramente cambiato il titolo dell'articolo di Zecchi che vi riporto più sotto, perché sono convinta che non è il paese che non accetta i papà e vede solo le mamme, ma è proprio la figura del padre che è assente, e non solo nelle famiglie separate.
I tempi son cambiati e i ritmi familiari anche, entrambe i genitori lavorano e i papà solitamente molto di più delle mamme. Il papà, vuoi per comodità, vuoi perché obbligato dagli impegni, vuoi anche per pigrizia, diciamolo, sempre di più delega la crescita dei figli alla mamma, con la conseguenza che il rapporto è sempre molto più stretto con un solo genitore, appunto perché il padre è assente. Assente non perché non vuole bene ai suoi figli, ma perché obbligato dalle circostanze, e questi loro lo capiranno, si spera, solo col tempo, diventando grandi.
Consiglio a Zecchi la lettura di un libro "Il padre, l’assente inaccettabile" edito da San Paolo, un libro che indubbiamente fa discutere, ma anche un libro che non fa affermazioni "tout court", un libro che si domanda il perché il padre è assente e che cerca di dare delle risposte, ben sapendo che la realtà ha mille facce e nessun padre è uguale ad un altro, così come nessuna famiglia è nelle stesse condizioni di un'altra.
Per concludere poi non sono d'accordo con la seconda parte dell'articolo dove mi sembra che l'autore sia un tantino di parte per arrivare a proporre di cambiare nome alla scuola dell'infanzia, Come vorrebbe chiamarla la "scuola materna", forse scuola paterna????? O scuola sostitutiva delle madri che lavorano!!!
E' bello vedere che le giovani coppie adesso si dividono la crescita dei bimbi, e quando possibile sempre più padri prendono l'aspettativa al posto della mamma per accudirli. Ma è bello scoprirlo anche nella semplicità giornaliera, c'è un'attenzione diversa, ho visto mio figlio fin dai primi giorni cambiare pannolini al mio nipotino, imboccarlo, accudirlo quando la mamma si assenta, ma anche quando c'è. Vi assicuro è incredile da vedere, e i padri che come lui lo sperimentano sono senz'altro più padri e più felici.

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Questo non è un paese per papà
di Stefano Zecchi, tratto da [ilgiornale.it] 14 settembre 2010

Matteo Sereni, portiere del brescia, dopo la partita ha salutato dalla tv i suoi bimbi con cui da mesi non ha contatti. Una conferma del pregiudizio a favore delle madri

La buona prestazione in una partita di calcio diventa l’occasione per inviare un messaggio carico di tristezza e d’ac­cusa. Il portiere della squadra di calcio del Brescia, Matteo Sereni, invece di in­trattenersi con le solite frasi fatte insie­me all’intervistatore che, davanti alle te­lecamere, elogiava la sua prestazione, approfitta dell’opportunità di avere davanti a sé la televisione per parlare ai suoi figli. Sereni spera che Simone e Giorgia abbiano visto la bella partita e apprezzato il loro pa­pà, perché a lui, da tanto tem­po, è preclusa la possibilità di incontrare i suoi figli, Per­ché? La risposta la conosco­no bene tanti papà separati che, per le ragioni più diver­se, non riescono più a vedere i propri figli. Le ragioni sono, appunto, diverse, ma sono riconducibi­li tutte a un unico motivo: la madre, nelle cause di separa­zione e di divorzio, è la figura tutelata a tutto danno del pa­dre. Mettiamo da parte l’aspet­to economico che pure, ov­viamente, ha il suo peso: co­nosco amici costretti a vivere in un residence o in una ca­mera in affitto perché, sepa­rati, rimangono loro ben po­chi quattrini per vivere, do­vendo dare una parte rilevan­te dello stipendio alla moglie e lasciarle la casa. Ma oltre a questa pena, ne patiscono una ben peggiore, quella di non riuscire a stare coi propri figli se la moglie s’impunta e trova mille cavilli legali per portare a compimento la sua vendetta. Perché di vendetta si tratta: l’uso dei figli come proiettili di fucile da sparare contro il marito. Non sono casi estremi, que­sti. Nascono da un pregiudi­zio: il padre non ha parità di diritti rispetto alla madre. La madre è la vera educatrice, il padre è una figura subalter­na. Questo pregiudizio diven­ta una regola normativa quando il giudice si trova ad assegnare, a uno dei genitori, in seguito alla loro separazio­ne, la custodia dei figli. In ol­tre il 95 per cento dei casi, il giudice li assegna alla ma­dre. Se i genitori vanno d’ac­cordo, il padre riesce a vede­re i propri figli due volte al me­se, nei giorni di festa e duran­te le vacanze, alternandole con la madre. Se invece avvo­cati e giudici non riescono ad appianare i conflitti coniuga­li, sul fronte di guerra la ma­dre manda i figli, e lei si ap­provvigiona delle armi più di­verse per negare all’ex mari­to la presenza dei figli. Co­munque, in un caso come nel­­l’altro, vale sempre lo stesso principio: il padre non è rile­vante come la madre nel­l’educazione dei figli.

E fin qui posso essere d'accordo con Stefano Zecchi, ma con la seconda parte dell'articolo assolutamente no.

La con­seguenza è sotto gli occhi di tutti: abbiamo una società mammocentrica, e i figli cre­scono totalmente mammiz­zati. Ma il dramma non si re­stringe alla condizione dei se­parati: nelle famiglie norma­li, il padre non esiste come fi­gura di responsabilità, di or­dine, di autorevolezza. I pa­dri sono stati rottamati. An­che per colpa loro, ma innan­­zitutto delle madri. La donna oggi non è più la casalinga di un tempo: lavora, spesso ha ruoli di responsabilità pub­blica e finisce per portare la sua autorità in famiglia, sot­traendola (anche in buona fe­de) al padre che, talvolta, tro­va vilmente nella condizione di potere della donna l’alibi per infischiarsene dell’edu­cazione dei figli, oppure si rassegna a vivere la frustra­zione della sua emarginazio­ne. Non avendo più il ruolo e l’identità che una volta gli ve­nivano riconosciuti per tradi­zione, l’educazione dei figli viene surrogata dalla mare. Così questi ragazzi cresco­no insicuri, fragili, imbozzo­lati nell’interiorità protettiva «della madre, privi di quel senso di realtà, del coraggio, del dovere di cui il padre è il vero artefice educativo. La società conferma e raf­forza la vita familiare: i giudi­ci sono tutti dalla parte della donna; negli affidi condivisi è sempre lei a prevalere; nel­le separazioni problemati­che la sottrazione - vero se­questro - dei figli da parte del­la madre non è ufficialmen­te, legalmente, ammessa, pe­rò nella realtà è praticata e tol­lerata. Ma perfino dal punto di vi­sta linguistico il mammocen­trismo è dominante. Si è riu­sciti a battezzare l’asilo con il nome di scuola materna! Ho dovuto, a suo tempo, suppli­care il ministro dell’Istruzio­ne Letizia Moratti perché cambiasse il nome in scuola dell’infanzia. E tuttavia, co­me credete che venga chia­mato ancora oggi l’asilo? Ov­vio: scuola materna. Sembrano dettagli. Ma si pensi al dolore di Matteo Se­reni, portiere della squadra di calcio del Brescia: deve ap­profittare di una buona parti­ta per lanciare un appello, per chiedere la cosa più uma­na e naturale: vedere i suoi fi­gli. E il vero dramma di Sere­ni non è soltanto provocato dall’ostilità della moglie: è la cultura di un’intera società che è contro di lui
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12 settembre 2010

Così don Bosco rispose all'emergenza educativa del suo tempo


I giovani hanno bisogno di veri maestri, come don Bosco e don Giussani, preti sì, ma innanzitutto uomini, educatori fin nel midollo che abbracciavano con tutto il cuore chi avevano di fronte.



Ragazzi protagonisti della mostra sul carisma di don Giovanni Bosco proposta dai Salesiani al Meeting nel primo anno del decennio dalla Cei dedicato all’emergenza educativa. Intitolata «L’educazione è cosa di cuore e le chiavi del cuore le possiede solo Dio», ripercorre gli anni dell’Ottocento in cui il metodo salesiano si contrapponeva alla repressione, arrivando ai giorni nostri in cui si pone in alternativa all’eccessivo buonismo e libertarismo con cui spesso ci si accosta ai giovani. Per questo l’aspetto storico è costantemente abbinato a rimandi al presente contenuti in pannelli in grande formato che si soffermano sugli snodi della proposta di don Bosco, partendo da una sua citazione che viene poi spiegata e seguita da un rilancio di attualizzazione. La scelta dei Salesiani che hanno curato la mostra è stata quella di adottare una modalità di progettazione allargata coinvolgendo, a partire dal mese di gennaio, una trentina di giovani.


«DON BOSCO? SAREBBE VENUTO AL MEETING» - I ragazzi hanno lavorato sui testi di don Bosco, in particolare le «Memorie dell’Oratorio di San Francesco di Sales» e alcuni scritti delle memorie biografiche. La mostra si è aperta il 22 agosto con l’inaugurazione del Meeting, con i visitatori che sono aumentati di numero fino a toccare 500 presenze al giorno. Come sottolinea don Elio Cesari, delegato dei Salesiani, «questa esperienza è paragonabile a degli esercizi spirituali in cui si è testimoni di ciò che si è vissuto. I giovani che sono stati coinvolti sono il vero contenuto della mostra».

E aggiunge don Cesari: «Ero stato al Meeting qualche anno fa ed ero rimasto colpito dal fatto che ci fossero tanti giovani. Ho pensato che don Bosco avrebbe certamente avuto l’idea di partecipare. L’anno scorso abbiamo quindi fatto una proposta all’organizzazione del Meeting che è stata accolta. L’idea è quella di mostrare la pedagogia di don Bosco, ancora forte e valida oggi, e di offrire a un gruppo di giovani delle nostre realtà di riflettere seriamente sulla proposta educativa di don Bosco».
UN’ESPERIENZA PER I VISITATORI - La prospettiva della mostra si situa non a caso «nell’apertura del decennio dedicato dalla Cei all’educazione, mettendo in evidenza un patrimonio che è un bene non solo dei Salesiani ma della Chiesa tutta e che è stato dimenticato o banalizzato in luoghi comuni, facendo conoscere oggi l’attualità del Sistema Preventivo. Ci inseriamo in quel rispetto per la Chiesa e per il Papa che don Bosco ha sempre avuto».

Quattro, come ricorda don Cesari, gli ambienti in cui si suddivide l’esposizione: «Casa, cortile, scuola e parrocchia, che sono presenti in ogni opera salesiana. La pedagogia di don Bosco è in primo luogo esperienza vissuta e abbiamo, quindi, cercato di far fare esperienza ai visitatori del modo in cui egli rispose all’emergenza educativa del suo tempo. L’idea di fondo è che egli non abbia inventato nulla, ma che abbia vissuto con una nuova pienezza gli elementi della relazione pedagogica».


«LASCIATO UN SEGNO FORTE» - Anche la scelta di coinvolgere così tanti ragazzi nasce dal fatto «che certamente don Bosco avrebbe fatto così: non si può pensare a lui senza pensare ai suoi giovani, non solo come destinatari dell’azione educativa ma come corresponsabili della stessa. Così è nata la congregazione salesiana. Il lavoro fatto in un gruppo grande è stato forse più lento, ma a posteriori ciascuno può riconoscere nelle scelte fatte la propria presenza. Questa è anche la forza della dinamica relazionale, che non vuole subito tirare le somme ma che ragiona sul lungo termine. Certamente questa esperienza lascerà un segno forte in chi si è lasciato coinvolgere».

I ragazzi sono stati coinvolti anche nella spiegazione della mostra. E quella che hanno vissuto nella settimana del Meeting, conclude don Cesari, è stata «un’esperienza molto forte dal punto di vista spirituale, che si traduce anche in una testimonianza attiva. Anche i visitatori che ascolteranno la mostra non si sono trovati come a lezione, ma piuttosto coinvolti in una relazione, come avviene nell’educazione. In fondo sono loro il vero contenuto della mostra».


di Pietro Vernizzi, tratto da [ilsussidiario.net]4 settembre 2010

05 settembre 2010

Otto ergastolani tra i volontari del Meeting per mostrare che cambiare è possibile

Leggendo la storia di questi ergastolani mi sono commossa. Pensate con che sguardo sono stati guardati, è un abbraccio intero alla loro vita al destino buono che desideriamo per ciascuno di noi, solo questo può spingere un ex detenuto a ritornare al meeting a distanza di due anni e lavorare gratuitamente.
Leggete tutte le storie su ilsussidiario.net io vi posto solo le prime.

Ludovico di Leva è in carcere da 24 anni. La prima volta che è entrato in prigione era ancora minorenne. Invece che sui banchi di scuola, ha passato l’adolescenza tra le sbarre. E non sempre i suoi «maestri», le persone incontrate nel penitenziario, sono state delle figure positive. Almeno fino a quando ha conosciuto i volontari della cooperativa Giotto, grazie a cui la sua vita è cambiata per sempre, al punto che quest’anno è uno dei 3.142 volontari del Meeting 2010. Di quel delitto, che non vuole neanche nominare, compiuto quando era ancora un ragazzino dice: «Io ci penso sempre. Se potessi tornare indietro ricomincerei da capo, ma con la mentalità di oggi. Se mi dicessero di tornare indietro, ma con la mentalità che avevo prima di entrare in prigione, non accetterei mai».


UNA SECONDA CHANCE INASPETTATA
- Per quell’errore, per quanto grave, degli anni dell’adolescenza Ludovico di Leva dovrà passare tutta la vita in prigione. «E’ giusto punire chi sbaglia, ma una sventura come la mia non l’augurerei neanche al mio peggior nemico», la sua riflessione. Per Ludovico di Leva, la cooperativa Giotto è stata una seconda chance inaspettata, per una persona che agli occhi di tutto il mondo era finita. Senza scorciatoie, perché non gli ha tolto neanche un giorno degli oltre 30 anni che deve ancora trascorrere in prigione. «Ciò che fa la differenza – sottolinea di Leva – non è soltanto il fatto di avere un lavoro, ma anche dei veri amici. Quando è morto mio padre non lo vedevo da sette anni e non mi è stato possibile incontrarlo neanche per l’ultima volta. Nicola Boscoletto (il presidente della cooperativa Giotto, ndr) e altri tre volontari sono venuti a trovarmi in carcere per farmi compagnia. Sono cose come questa che, nel tempo, mi stanno cambiando. Prima di iniziare a lavorare nella Giotto, nel 2002, ero pieno di cattive intenzioni. Ora non più».


RAMADAN AL MEETING - Di Leva è uno degli otto carcerati che lavorano al Meeting come volontari, cui si aggiungono quattro ex detenuti che avevano partecipato all’edizione del 2008, quella della mostra «Vigilando redimere», e che anche una volta tornati in libertà non sono voluti mancare all’appuntamento riminese. Tra loro anche Youssef Smin, marocchino e musulmano praticante, che al Meeting sta osservando il Ramadan pur lavorando nello stand della ristorazione. «Quello che mi ha colpito, venendo per la prima volta al Meeting, è l’umanità delle persone che ho incontrato, non importa se di un’altra religione rispetto alla mia. Il Meeting è una realtà bellissima, un conto è sentirne parlare e un’altra vederlo: anche noi musulmani abbiamo provato a fare qualcosa del genere, ma non siamo mai riusciti a fare le cose così in grande». [... segue]

01 settembre 2010

Incinta, chiede aiuti al consultorio. La risposta: abortisca

Tutti sospettiamo che i consultori sono l'anticamera per l'aborto più che un aiuto alla donna in gravidanza, tant'è che non accettano neppure la prsenza dei volontari dei centri d'aiuto, e questo articolo di Alessia Guerrieri, pubblicato su Avvenire.it il 1 settembre 2010

Teresa accarezza continuamente il suo pancione, come se dovesse ancora proteggere quel figlio che cresce da tre mesi nel suo ventre. «Ora che è qui dentro è al sicuro, ma quando nascerà sarà molto dura per noi». Sorride comunque, finalmente. Non ha più paura di affrontare la sua nuova vita da ragazza madre, «io non sono più sola, c’è lui con me – dice mentre indica quel miracolo che l’ecografia ha già scritto che sarà un "lui" –. Siamo in due, solo noi due». Un lui che chiamerà Francesco e nascerà a marzo: «Questo bambino è stato concepito in Umbria, la patria di Francesco d’Assisi, vorrei che portasse il suo nome». La luce della vita, Teresa l’ha riscoperta dopo settimane di vuoto e di confusione, attraversate di tanto in tanto anche dalla voglia di farla finita. «Come potevo pensare – ribatte – di far crescere un figlio da sola, senza lavoro, senza casa, senza un compagno e senza un soldo?».

Quasi trent’anni, due sorelle all’estero e una mamma che non sente da anni, un diploma da odontoiatra, per ora inutilizzato. Poi quel compagno che «pur dicendo di desiderare come me un bambino, se ne è tornato in Tunisia» con il suo bagaglio di bugie. E non ha più nessuna intenzione di venire in Italia. Teresa parla tenendo lo sguardo fisso a quel figlio che le sta dando il coraggio e la forza di affrontare mille difficoltà. Lei, cardiopatica e con una gravidanza a rischio, però, ha deciso di andare avanti. Eppure, sola e disperata, il 30 luglio stava per cancellare quella vita che tanto aveva sognato. «Io lo volevo, l’ho voluto fin dall’inizio – racconta – ma ero talmente confusa che avevo già avviato le pratiche per l’aborto. Mi sentivo un mostro, comunque, una donna indegna di vivere. Per fortuna non ho avuto la forza di presentarmi in ospedale quel giorno». Infine la decisione di rivolgersi ad un assistente sociale nel suo municipio a Roma.

«Cercavo una parola di conforto, un posto dove stare, visto che dovevo lasciare il mio appartamento perché non potevo più permettermelo – confessa –, cercavo un aiuto ed invece...». I suoi occhioni neri si sono riempiti di lacrime quella mattina d’inizio agosto, quando le uniche parole di sostegno che ha avuto sono state quelle che mai nessuno si sarebbe immaginato. «Non possiamo fare molto per lei, non abbiamo grandi risorse. Ma non si rende conto che sarà difficile nella sua situazione crescere un bambino? Forse sarebbe il caso di pensare all’interruzione di gravidanza». L’assistente sociale non ha prospettato grandi alternative; in più le sue ferie sarebbero cominciate il giorno successivo e, quindi, pochi i tentativi da fare. Una telefonata dai servizi sociali effettivamente il giorno dopo è arrivata con una probabile sistemazione per soli due mesi e l’invito a risentirsi al rientro dalla vacanze.
«Ho pregato molto il Signore quella notte, non sapevo cosa fare, pregavo per il mio bambino e per quelle mamme come me che nessuno sente gridare in silenzio. Mi sono sentita come se tenere il figlio che già amavo immensamente fosse il reato più grande che potessi fare». Teresa fa una pausa. Poi spiega dell’incontro con un vecchio amico vicentino e, grazie a lui, del contatto col Centro di aiuto per la vita della Capitale. «Lì ho trovato innanzitutto il conforto e l’ascolto di cui avevo bisogno, oltre ad un aiuto materiale – aggiunge –. Mi hanno sistemato in una casa-famiglia dove potrò stare anche dopo il parto. Sempre grazie a loro ho un ginecologo di un grande ospedale romano che mi segue gratuitamente e che conosce bene la mia patologia».

Al tavolino di un bar, giocherellando con la cannuccia della sua acqua e limone, Teresa non nasconde la rabbia per quel «muro di insensibilità» che ha trovato, e continua a ricevere, proprio da chi invece dovrebbe aiutare. Per vivere ora, oltre ad un piccolo contributo del Cav, si arrangia come può, vendendo anche le sue originali lampade su internet. «Non voglio sentirmi una parassita dello Stato – dice lasciando per un attimo cadere gli occhi sulla lana che ha appena comprato per la copertina del suo Francesco –. Come è possibile in un Paese moderno e credente che i servizi sociali mi dicano di abortire, di dormire in alloggi di fortuna o addirittura di andar via dall’Italia per farmi aiutare delle mie sorelle all’estero?». Alle sue tante domande per adesso non trova risposta, ma ha un’unica certezza: quando Francesco nascerà vorrà impegnarsi perché nessun’altra donna viva ciò che ha passato lei. Tra qualche giorno sarà il suo compleanno, ma la vita le ha già riservato il regalo più grande.

09 gennaio 2010

L’ipocrisia di chi combatte il suicidio ma promuove l’eutanasia

Non so cosa ne pensate e che effetto fa a voi sentire queste notizie, a me personalmente mettono una gran tristezza.
Mi domando ma di quale libertà stiamo parlando? La parola "libertà" davvero vuole solo dire "faccio ciò che voglio", anche uccidermi è nel mio diritto? Ma allora cos'è il diritto? Dicono che è un insieme di norme che regola la società e la convivenza civile. Sì ma è una società malata e distorta quella che pensa di essere libera di uccidersi.

Vi propongo una bella riflessione sull'argomento con un aricolo del neonatologo Carlo Bellieni pubblicato su ilsussidiario.net di oggi.
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In Italia ancora chiacchieriamo di testamento biologico, mentre nel resto del mondo già si va a discutere su come normare il suicidio, la cui legittimità ormai sta diventando scontata e presto ce lo ritroveremo in casa (in Svizzera è lecito; si dirà: «forse vorrete obbligarci al turismo suicidario, e non lasciarcelo fare sotto casa nostra?»). Sorprendentemente però leggiamo un recente studio di un’equipe del New York State Psychiatric Institute, che spiega come tanti suicidi sono prevenibili con lo sport e l’attività sociale. Ma come: se ne interessano gli psichiatri, quando abbiamo ormai deciso che suicidarsi è un atto di autodeterminazione e libertà, e non un fatto patologico? E forse qualcuno osa ancora prevenire il suicidio, quando si è appena sancito (giornali e TV alla moda) che il suicidio è un diritto?

Già: suicidarsi comincia ad entrare nella mentalità come un nuovo diritto. Ci sarà chi obietterà che il suicidio diventa un diritto dopo che la richiesta è stata burocratizzata, approvata da una commissione di cui facciano parte psicologo, oncologo, geriatra, e magari anche il “ministro del culto” (scommetto che c’è chi ci ha pensato). Insomma, prima dicono che il suicidio è un fatto di autodeterminazione, poi ci ridicono invece che l’autodeterminazione in oggetto è accettabile o meno a seconda del volere di una commissione, quindi è un’autodeterminazione in libertà vigilata. Quando poi facciamo notare che la commissione potrebbe chiedere di cambiare le condizioni ambientali o curare la depressione invece di far morire la gente, ci rispondono che non dobbiamo interferire con le “libere scelte”; e così l’autodeterminazione rientra dalla finestra. Ma è davvero autodeterminazione se è una scelta solitaria? E da cosa dipende davvero il suicidio (sempre che a qualcuno interessi scoprirne e prevenirne le cause e non solo spalancarne i cancelli)? Troviamo ad esempio proprio in questi giorni sulla rivista Sleep un altro studio che ha misurato che la tendenza al suicidio peggiora con il diminuire delle ore di sonno negli adolescenti che vanno a letto senza orari, dopo ore e ore i TV o internet. Sarà allora colpa dell’insonnia? Permettete che dissentiamo se qualcuno commenta che togliersi la vita dipende dalle ore di sonno, mentre lo studio mostra secondo noi ben altro: i genitori non sono più in grado di dare regole ai figli, cioè di fare i genitori, non danno orari, non fanno compagnia, e i figli sono orfani più orfani di quelli che hanno i genitori morti; e non pensate che questo “orfanaggio” culturale non sia uno stimolo alla perdita di entusiasmo e amore alla vita?
La cultura dominante cerca invano di prevenire il suicidio che lei stessa induce abbandonando i giovani a se stessi e abbandonando a solitarie decisioni le persone tristi; e l’induce anche permettendo che in TV vadano personaggi che banalizzano l’uso della marijuana, quando degli studi mostrano il rapporto tra uso di cannabis e ideazioni suicide, come per esempio la rivista Case Reports in Medicine del giugno 2009. Una società che venera l’autodeterminazione-solitudine, che sogghigna sulla tragedia di chi assume droga, presto farà arrestare chi fermerà un suicida, perché dirà che il vigile urbano o il passante o la moglie hanno privato il suicida della sua “libera scelta”; sarà la nuova moda senza fondamenta scientifiche, tragica come quella della chiusura dei manicomi fatta in nome dello slogan che la malattia mentale “non esiste” (e ora si fa tardiva marcia indietro sulla pelle di tanti che ne hanno sofferto); e così avverrà per l’apertura al suicidio sulla base dell’assioma che «ogni decisione sottoscritta da un notaio è per definizione libera»: ma è solo un nuovo slogan, una nuova violenza.

07 gennaio 2010

Dall’auto esce uno spot contro l’aborto

Finalmente uno spot che parte dal positivo, pensa al bene per tutti e non solo al commercio. Una pubblicità bella perché vera, complimenti ai creativi della Ford.

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Così lo descrive Renato Farina in un articolo apparso ieri su ilgiornale.it.

Improvvisamente la pubblicità dice la verità, ma una verità così potente che va contenuta nei limiti dell'accettabile. Ma non ci riesce, esplode lo stesso, e io la trovo bellissima. C'entra con la festa dei bambini quale è da sempre l'Epifania, che vuol dire «manifestazione» della verità di un bambino dinanzi al mondo.
La Ford ha lanciato la campagna degli ecoincentivi per il 2010 per chi acquisti una sua vettura il cui punto forte è uno spot dove i protagonisti sono tre animali. Sono un orso, un elefante e un delfino. Ovvio il nesso: proteggi la natura usando auto pulite e l'ambiente diventa più accogliente non solo per l'animale uomo, ma per qualunque specie creata. Fin qui niente di particolarmente nuovo. La réclame va però più in là. Sono cuccioli. Ma cuccioli non ancora nati. Essi nuotano beati nelle acque materne. Sono già formati, si riconosce la piccola proboscide, il musetto. Sono azzurri come le cose belle dei nostri sogni, però sono reali anche se per vedere questi mammiferi ancora immersi nel liquido amniotico ci saranno volute telecamere grandi come una capocchia di spillo infilate sotto la pelliccia dell'orsa, dell'elefantessa e della delfina. Dunque il messaggio di protezione della natura, ma anche l'impulso a spendere denari, a mettere in moto l'economia è affidato a creature che devono nascere, che vogliono nascere, che è bello nascano. Creature che non vanno rigettate, non vanno sputate come rifiuti in un mondo schifoso, ma bisogna rispettare loro e il loro destino.
Vogliamo dirlo: è la prima pubblicità contro l'aborto che si sia vista. Mostra come l'aborto sia non solo contro gli esserini che non nascono, ma anche contro le madri che vorrebbero il loro bene, contro il desiderio di vita, di moltiplicazione e protezione che è in noi. Insomma contro la natura e l'ambiente.
Ho detto aborto. I creativi della pubblicità Ford però si sono accontentati della metafora, della analogia: i mammiferi, ma non quel tipo particolare di mammifero di nome uomo. Infatti se i tre protagonisti dello spot fossero stati tre bambini, magari di colori diversi, esso avrebbe diviso. Tutti infatti sono d'accordo che gli animali non vanno fatti abortire, ci sono campagne giustissime contro chi strappa gli agnellini persiani - i karakul - dal ventre di mamma pecora per farne pellicce di astrakan. Cito: «In un video diffuso da Human Society e girato nel 2000 in una fattoria in Uzbekistan (con 10.000 capi) si vede la pecora gravida tenuta a terra, le viene tagliata la gola e squartato il ventre per estrarre il feto». Orrore, non si fa. Né uccidere la madre e neanche il cucciolo. Anche il cucciolo d'uomo direi. È contro natura, contro gli ecoincentivi che sono dentro di noi. C'erano i verdi tedeschi - almeno una loro corrente - che negli anni '80 si dissero d'accordo con Ratzinger nella contrarietà all'aborto perché contro natura.
Ogni tanto bisogna ricordare che questa tragedia continua. E che non va bene. La nostra legge, la 194, si chiama «Per la tutela della maternità», poi legalizza l'aborto. Si era detto, quando nel 2008 Giuliano Ferrara presentò la lista No all'aborto, che il Parlamento avrebbe fatto di tutto per spingere verso il sostegno della vita nascente e di chi ne era artefice (la donna). Invece l'aborto fa progressi inesorabili grazie alla Ru486, che rende pericolosa per la donna, ma facile e solitaria la distruzione di un certo tipo di mammifero, che andrebbe tutelato. Il cucciolo d'uomo.
Mi rendo conto che sarò criticato per questa espressione presa di peso da Kipling. Si dirà: bisogna dire feti, che sembrano un po' meno bambini e molto meno persone. Ma io stavo citando la pubblicità della Ford, che nel sito Internet ufficiale viene descritta così: «La campagna di lancio, che punta sullo slogan "Perché l'ambiente conta davvero", si intitola "Baby Animals" e ritrae tre cuccioli (un delfino, un orso e un elefante, nelle foto) che riposano nel grembo materno». Li chiamano «animali bambini» e «cuccioli nel grembo materno», non dicono «feti». Mi viene in mente che bisognerebbe imparare a trattare e chiamare il mammifero umano con la stessa delicatezza che la Ford ci insegna verso delfini, orsetti ed elefantini non ancora nati.