Vincent Van Gogh - Notte stellata sul Rodano - particolare (Musée d’Orsay, Parigi)

16 settembre 2010

Questo è un paese dove il padre è assente

Argomento scottante questo dei papà separati, ho alcuni amici di cui conosco molto bene la situazione e devo dire che la vita dei papà separati è veramente difficile, sia in termini economici, ma soprattutto nel rapporto con i figli.
Ciò premesso ho letteramente cambiato il titolo dell'articolo di Zecchi che vi riporto più sotto, perché sono convinta che non è il paese che non accetta i papà e vede solo le mamme, ma è proprio la figura del padre che è assente, e non solo nelle famiglie separate.
I tempi son cambiati e i ritmi familiari anche, entrambe i genitori lavorano e i papà solitamente molto di più delle mamme. Il papà, vuoi per comodità, vuoi perché obbligato dagli impegni, vuoi anche per pigrizia, diciamolo, sempre di più delega la crescita dei figli alla mamma, con la conseguenza che il rapporto è sempre molto più stretto con un solo genitore, appunto perché il padre è assente. Assente non perché non vuole bene ai suoi figli, ma perché obbligato dalle circostanze, e questi loro lo capiranno, si spera, solo col tempo, diventando grandi.
Consiglio a Zecchi la lettura di un libro "Il padre, l’assente inaccettabile" edito da San Paolo, un libro che indubbiamente fa discutere, ma anche un libro che non fa affermazioni "tout court", un libro che si domanda il perché il padre è assente e che cerca di dare delle risposte, ben sapendo che la realtà ha mille facce e nessun padre è uguale ad un altro, così come nessuna famiglia è nelle stesse condizioni di un'altra.
Per concludere poi non sono d'accordo con la seconda parte dell'articolo dove mi sembra che l'autore sia un tantino di parte per arrivare a proporre di cambiare nome alla scuola dell'infanzia, Come vorrebbe chiamarla la "scuola materna", forse scuola paterna????? O scuola sostitutiva delle madri che lavorano!!!
E' bello vedere che le giovani coppie adesso si dividono la crescita dei bimbi, e quando possibile sempre più padri prendono l'aspettativa al posto della mamma per accudirli. Ma è bello scoprirlo anche nella semplicità giornaliera, c'è un'attenzione diversa, ho visto mio figlio fin dai primi giorni cambiare pannolini al mio nipotino, imboccarlo, accudirlo quando la mamma si assenta, ma anche quando c'è. Vi assicuro è incredile da vedere, e i padri che come lui lo sperimentano sono senz'altro più padri e più felici.

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Questo non è un paese per papà
di Stefano Zecchi, tratto da [ilgiornale.it] 14 settembre 2010

Matteo Sereni, portiere del brescia, dopo la partita ha salutato dalla tv i suoi bimbi con cui da mesi non ha contatti. Una conferma del pregiudizio a favore delle madri

La buona prestazione in una partita di calcio diventa l’occasione per inviare un messaggio carico di tristezza e d’ac­cusa. Il portiere della squadra di calcio del Brescia, Matteo Sereni, invece di in­trattenersi con le solite frasi fatte insie­me all’intervistatore che, davanti alle te­lecamere, elogiava la sua prestazione, approfitta dell’opportunità di avere davanti a sé la televisione per parlare ai suoi figli. Sereni spera che Simone e Giorgia abbiano visto la bella partita e apprezzato il loro pa­pà, perché a lui, da tanto tem­po, è preclusa la possibilità di incontrare i suoi figli, Per­ché? La risposta la conosco­no bene tanti papà separati che, per le ragioni più diver­se, non riescono più a vedere i propri figli. Le ragioni sono, appunto, diverse, ma sono riconducibi­li tutte a un unico motivo: la madre, nelle cause di separa­zione e di divorzio, è la figura tutelata a tutto danno del pa­dre. Mettiamo da parte l’aspet­to economico che pure, ov­viamente, ha il suo peso: co­nosco amici costretti a vivere in un residence o in una ca­mera in affitto perché, sepa­rati, rimangono loro ben po­chi quattrini per vivere, do­vendo dare una parte rilevan­te dello stipendio alla moglie e lasciarle la casa. Ma oltre a questa pena, ne patiscono una ben peggiore, quella di non riuscire a stare coi propri figli se la moglie s’impunta e trova mille cavilli legali per portare a compimento la sua vendetta. Perché di vendetta si tratta: l’uso dei figli come proiettili di fucile da sparare contro il marito. Non sono casi estremi, que­sti. Nascono da un pregiudi­zio: il padre non ha parità di diritti rispetto alla madre. La madre è la vera educatrice, il padre è una figura subalter­na. Questo pregiudizio diven­ta una regola normativa quando il giudice si trova ad assegnare, a uno dei genitori, in seguito alla loro separazio­ne, la custodia dei figli. In ol­tre il 95 per cento dei casi, il giudice li assegna alla ma­dre. Se i genitori vanno d’ac­cordo, il padre riesce a vede­re i propri figli due volte al me­se, nei giorni di festa e duran­te le vacanze, alternandole con la madre. Se invece avvo­cati e giudici non riescono ad appianare i conflitti coniuga­li, sul fronte di guerra la ma­dre manda i figli, e lei si ap­provvigiona delle armi più di­verse per negare all’ex mari­to la presenza dei figli. Co­munque, in un caso come nel­­l’altro, vale sempre lo stesso principio: il padre non è rile­vante come la madre nel­l’educazione dei figli.

E fin qui posso essere d'accordo con Stefano Zecchi, ma con la seconda parte dell'articolo assolutamente no.

La con­seguenza è sotto gli occhi di tutti: abbiamo una società mammocentrica, e i figli cre­scono totalmente mammiz­zati. Ma il dramma non si re­stringe alla condizione dei se­parati: nelle famiglie norma­li, il padre non esiste come fi­gura di responsabilità, di or­dine, di autorevolezza. I pa­dri sono stati rottamati. An­che per colpa loro, ma innan­­zitutto delle madri. La donna oggi non è più la casalinga di un tempo: lavora, spesso ha ruoli di responsabilità pub­blica e finisce per portare la sua autorità in famiglia, sot­traendola (anche in buona fe­de) al padre che, talvolta, tro­va vilmente nella condizione di potere della donna l’alibi per infischiarsene dell’edu­cazione dei figli, oppure si rassegna a vivere la frustra­zione della sua emarginazio­ne. Non avendo più il ruolo e l’identità che una volta gli ve­nivano riconosciuti per tradi­zione, l’educazione dei figli viene surrogata dalla mare. Così questi ragazzi cresco­no insicuri, fragili, imbozzo­lati nell’interiorità protettiva «della madre, privi di quel senso di realtà, del coraggio, del dovere di cui il padre è il vero artefice educativo. La società conferma e raf­forza la vita familiare: i giudi­ci sono tutti dalla parte della donna; negli affidi condivisi è sempre lei a prevalere; nel­le separazioni problemati­che la sottrazione - vero se­questro - dei figli da parte del­la madre non è ufficialmen­te, legalmente, ammessa, pe­rò nella realtà è praticata e tol­lerata. Ma perfino dal punto di vi­sta linguistico il mammocen­trismo è dominante. Si è riu­sciti a battezzare l’asilo con il nome di scuola materna! Ho dovuto, a suo tempo, suppli­care il ministro dell’Istruzio­ne Letizia Moratti perché cambiasse il nome in scuola dell’infanzia. E tuttavia, co­me credete che venga chia­mato ancora oggi l’asilo? Ov­vio: scuola materna. Sembrano dettagli. Ma si pensi al dolore di Matteo Se­reni, portiere della squadra di calcio del Brescia: deve ap­profittare di una buona parti­ta per lanciare un appello, per chiedere la cosa più uma­na e naturale: vedere i suoi fi­gli. E il vero dramma di Sere­ni non è soltanto provocato dall’ostilità della moglie: è la cultura di un’intera società che è contro di lui
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12 settembre 2010

Così don Bosco rispose all'emergenza educativa del suo tempo


I giovani hanno bisogno di veri maestri, come don Bosco e don Giussani, preti sì, ma innanzitutto uomini, educatori fin nel midollo che abbracciavano con tutto il cuore chi avevano di fronte.



Ragazzi protagonisti della mostra sul carisma di don Giovanni Bosco proposta dai Salesiani al Meeting nel primo anno del decennio dalla Cei dedicato all’emergenza educativa. Intitolata «L’educazione è cosa di cuore e le chiavi del cuore le possiede solo Dio», ripercorre gli anni dell’Ottocento in cui il metodo salesiano si contrapponeva alla repressione, arrivando ai giorni nostri in cui si pone in alternativa all’eccessivo buonismo e libertarismo con cui spesso ci si accosta ai giovani. Per questo l’aspetto storico è costantemente abbinato a rimandi al presente contenuti in pannelli in grande formato che si soffermano sugli snodi della proposta di don Bosco, partendo da una sua citazione che viene poi spiegata e seguita da un rilancio di attualizzazione. La scelta dei Salesiani che hanno curato la mostra è stata quella di adottare una modalità di progettazione allargata coinvolgendo, a partire dal mese di gennaio, una trentina di giovani.


«DON BOSCO? SAREBBE VENUTO AL MEETING» - I ragazzi hanno lavorato sui testi di don Bosco, in particolare le «Memorie dell’Oratorio di San Francesco di Sales» e alcuni scritti delle memorie biografiche. La mostra si è aperta il 22 agosto con l’inaugurazione del Meeting, con i visitatori che sono aumentati di numero fino a toccare 500 presenze al giorno. Come sottolinea don Elio Cesari, delegato dei Salesiani, «questa esperienza è paragonabile a degli esercizi spirituali in cui si è testimoni di ciò che si è vissuto. I giovani che sono stati coinvolti sono il vero contenuto della mostra».

E aggiunge don Cesari: «Ero stato al Meeting qualche anno fa ed ero rimasto colpito dal fatto che ci fossero tanti giovani. Ho pensato che don Bosco avrebbe certamente avuto l’idea di partecipare. L’anno scorso abbiamo quindi fatto una proposta all’organizzazione del Meeting che è stata accolta. L’idea è quella di mostrare la pedagogia di don Bosco, ancora forte e valida oggi, e di offrire a un gruppo di giovani delle nostre realtà di riflettere seriamente sulla proposta educativa di don Bosco».
UN’ESPERIENZA PER I VISITATORI - La prospettiva della mostra si situa non a caso «nell’apertura del decennio dedicato dalla Cei all’educazione, mettendo in evidenza un patrimonio che è un bene non solo dei Salesiani ma della Chiesa tutta e che è stato dimenticato o banalizzato in luoghi comuni, facendo conoscere oggi l’attualità del Sistema Preventivo. Ci inseriamo in quel rispetto per la Chiesa e per il Papa che don Bosco ha sempre avuto».

Quattro, come ricorda don Cesari, gli ambienti in cui si suddivide l’esposizione: «Casa, cortile, scuola e parrocchia, che sono presenti in ogni opera salesiana. La pedagogia di don Bosco è in primo luogo esperienza vissuta e abbiamo, quindi, cercato di far fare esperienza ai visitatori del modo in cui egli rispose all’emergenza educativa del suo tempo. L’idea di fondo è che egli non abbia inventato nulla, ma che abbia vissuto con una nuova pienezza gli elementi della relazione pedagogica».


«LASCIATO UN SEGNO FORTE» - Anche la scelta di coinvolgere così tanti ragazzi nasce dal fatto «che certamente don Bosco avrebbe fatto così: non si può pensare a lui senza pensare ai suoi giovani, non solo come destinatari dell’azione educativa ma come corresponsabili della stessa. Così è nata la congregazione salesiana. Il lavoro fatto in un gruppo grande è stato forse più lento, ma a posteriori ciascuno può riconoscere nelle scelte fatte la propria presenza. Questa è anche la forza della dinamica relazionale, che non vuole subito tirare le somme ma che ragiona sul lungo termine. Certamente questa esperienza lascerà un segno forte in chi si è lasciato coinvolgere».

I ragazzi sono stati coinvolti anche nella spiegazione della mostra. E quella che hanno vissuto nella settimana del Meeting, conclude don Cesari, è stata «un’esperienza molto forte dal punto di vista spirituale, che si traduce anche in una testimonianza attiva. Anche i visitatori che ascolteranno la mostra non si sono trovati come a lezione, ma piuttosto coinvolti in una relazione, come avviene nell’educazione. In fondo sono loro il vero contenuto della mostra».


di Pietro Vernizzi, tratto da [ilsussidiario.net]4 settembre 2010

05 settembre 2010

Otto ergastolani tra i volontari del Meeting per mostrare che cambiare è possibile

Leggendo la storia di questi ergastolani mi sono commossa. Pensate con che sguardo sono stati guardati, è un abbraccio intero alla loro vita al destino buono che desideriamo per ciascuno di noi, solo questo può spingere un ex detenuto a ritornare al meeting a distanza di due anni e lavorare gratuitamente.
Leggete tutte le storie su ilsussidiario.net io vi posto solo le prime.

Ludovico di Leva è in carcere da 24 anni. La prima volta che è entrato in prigione era ancora minorenne. Invece che sui banchi di scuola, ha passato l’adolescenza tra le sbarre. E non sempre i suoi «maestri», le persone incontrate nel penitenziario, sono state delle figure positive. Almeno fino a quando ha conosciuto i volontari della cooperativa Giotto, grazie a cui la sua vita è cambiata per sempre, al punto che quest’anno è uno dei 3.142 volontari del Meeting 2010. Di quel delitto, che non vuole neanche nominare, compiuto quando era ancora un ragazzino dice: «Io ci penso sempre. Se potessi tornare indietro ricomincerei da capo, ma con la mentalità di oggi. Se mi dicessero di tornare indietro, ma con la mentalità che avevo prima di entrare in prigione, non accetterei mai».


UNA SECONDA CHANCE INASPETTATA
- Per quell’errore, per quanto grave, degli anni dell’adolescenza Ludovico di Leva dovrà passare tutta la vita in prigione. «E’ giusto punire chi sbaglia, ma una sventura come la mia non l’augurerei neanche al mio peggior nemico», la sua riflessione. Per Ludovico di Leva, la cooperativa Giotto è stata una seconda chance inaspettata, per una persona che agli occhi di tutto il mondo era finita. Senza scorciatoie, perché non gli ha tolto neanche un giorno degli oltre 30 anni che deve ancora trascorrere in prigione. «Ciò che fa la differenza – sottolinea di Leva – non è soltanto il fatto di avere un lavoro, ma anche dei veri amici. Quando è morto mio padre non lo vedevo da sette anni e non mi è stato possibile incontrarlo neanche per l’ultima volta. Nicola Boscoletto (il presidente della cooperativa Giotto, ndr) e altri tre volontari sono venuti a trovarmi in carcere per farmi compagnia. Sono cose come questa che, nel tempo, mi stanno cambiando. Prima di iniziare a lavorare nella Giotto, nel 2002, ero pieno di cattive intenzioni. Ora non più».


RAMADAN AL MEETING - Di Leva è uno degli otto carcerati che lavorano al Meeting come volontari, cui si aggiungono quattro ex detenuti che avevano partecipato all’edizione del 2008, quella della mostra «Vigilando redimere», e che anche una volta tornati in libertà non sono voluti mancare all’appuntamento riminese. Tra loro anche Youssef Smin, marocchino e musulmano praticante, che al Meeting sta osservando il Ramadan pur lavorando nello stand della ristorazione. «Quello che mi ha colpito, venendo per la prima volta al Meeting, è l’umanità delle persone che ho incontrato, non importa se di un’altra religione rispetto alla mia. Il Meeting è una realtà bellissima, un conto è sentirne parlare e un’altra vederlo: anche noi musulmani abbiamo provato a fare qualcosa del genere, ma non siamo mai riusciti a fare le cose così in grande». [... segue]

01 settembre 2010

Incinta, chiede aiuti al consultorio. La risposta: abortisca

Tutti sospettiamo che i consultori sono l'anticamera per l'aborto più che un aiuto alla donna in gravidanza, tant'è che non accettano neppure la prsenza dei volontari dei centri d'aiuto, e questo articolo di Alessia Guerrieri, pubblicato su Avvenire.it il 1 settembre 2010

Teresa accarezza continuamente il suo pancione, come se dovesse ancora proteggere quel figlio che cresce da tre mesi nel suo ventre. «Ora che è qui dentro è al sicuro, ma quando nascerà sarà molto dura per noi». Sorride comunque, finalmente. Non ha più paura di affrontare la sua nuova vita da ragazza madre, «io non sono più sola, c’è lui con me – dice mentre indica quel miracolo che l’ecografia ha già scritto che sarà un "lui" –. Siamo in due, solo noi due». Un lui che chiamerà Francesco e nascerà a marzo: «Questo bambino è stato concepito in Umbria, la patria di Francesco d’Assisi, vorrei che portasse il suo nome». La luce della vita, Teresa l’ha riscoperta dopo settimane di vuoto e di confusione, attraversate di tanto in tanto anche dalla voglia di farla finita. «Come potevo pensare – ribatte – di far crescere un figlio da sola, senza lavoro, senza casa, senza un compagno e senza un soldo?».

Quasi trent’anni, due sorelle all’estero e una mamma che non sente da anni, un diploma da odontoiatra, per ora inutilizzato. Poi quel compagno che «pur dicendo di desiderare come me un bambino, se ne è tornato in Tunisia» con il suo bagaglio di bugie. E non ha più nessuna intenzione di venire in Italia. Teresa parla tenendo lo sguardo fisso a quel figlio che le sta dando il coraggio e la forza di affrontare mille difficoltà. Lei, cardiopatica e con una gravidanza a rischio, però, ha deciso di andare avanti. Eppure, sola e disperata, il 30 luglio stava per cancellare quella vita che tanto aveva sognato. «Io lo volevo, l’ho voluto fin dall’inizio – racconta – ma ero talmente confusa che avevo già avviato le pratiche per l’aborto. Mi sentivo un mostro, comunque, una donna indegna di vivere. Per fortuna non ho avuto la forza di presentarmi in ospedale quel giorno». Infine la decisione di rivolgersi ad un assistente sociale nel suo municipio a Roma.

«Cercavo una parola di conforto, un posto dove stare, visto che dovevo lasciare il mio appartamento perché non potevo più permettermelo – confessa –, cercavo un aiuto ed invece...». I suoi occhioni neri si sono riempiti di lacrime quella mattina d’inizio agosto, quando le uniche parole di sostegno che ha avuto sono state quelle che mai nessuno si sarebbe immaginato. «Non possiamo fare molto per lei, non abbiamo grandi risorse. Ma non si rende conto che sarà difficile nella sua situazione crescere un bambino? Forse sarebbe il caso di pensare all’interruzione di gravidanza». L’assistente sociale non ha prospettato grandi alternative; in più le sue ferie sarebbero cominciate il giorno successivo e, quindi, pochi i tentativi da fare. Una telefonata dai servizi sociali effettivamente il giorno dopo è arrivata con una probabile sistemazione per soli due mesi e l’invito a risentirsi al rientro dalla vacanze.
«Ho pregato molto il Signore quella notte, non sapevo cosa fare, pregavo per il mio bambino e per quelle mamme come me che nessuno sente gridare in silenzio. Mi sono sentita come se tenere il figlio che già amavo immensamente fosse il reato più grande che potessi fare». Teresa fa una pausa. Poi spiega dell’incontro con un vecchio amico vicentino e, grazie a lui, del contatto col Centro di aiuto per la vita della Capitale. «Lì ho trovato innanzitutto il conforto e l’ascolto di cui avevo bisogno, oltre ad un aiuto materiale – aggiunge –. Mi hanno sistemato in una casa-famiglia dove potrò stare anche dopo il parto. Sempre grazie a loro ho un ginecologo di un grande ospedale romano che mi segue gratuitamente e che conosce bene la mia patologia».

Al tavolino di un bar, giocherellando con la cannuccia della sua acqua e limone, Teresa non nasconde la rabbia per quel «muro di insensibilità» che ha trovato, e continua a ricevere, proprio da chi invece dovrebbe aiutare. Per vivere ora, oltre ad un piccolo contributo del Cav, si arrangia come può, vendendo anche le sue originali lampade su internet. «Non voglio sentirmi una parassita dello Stato – dice lasciando per un attimo cadere gli occhi sulla lana che ha appena comprato per la copertina del suo Francesco –. Come è possibile in un Paese moderno e credente che i servizi sociali mi dicano di abortire, di dormire in alloggi di fortuna o addirittura di andar via dall’Italia per farmi aiutare delle mie sorelle all’estero?». Alle sue tante domande per adesso non trova risposta, ma ha un’unica certezza: quando Francesco nascerà vorrà impegnarsi perché nessun’altra donna viva ciò che ha passato lei. Tra qualche giorno sarà il suo compleanno, ma la vita le ha già riservato il regalo più grande.