Vincent Van Gogh - Notte stellata sul Rodano - particolare (Musée d’Orsay, Parigi)

14 maggio 2009

Lasciarsi riempire di stupore

Pensavo di essere una mosca bianca, troppo sentimentale o troppo infantile anche se già nonna, insomma una che fa esattamente ciò che Marina Corradi racconta nel suo articolo: si stupisce per un piccolo fiore che spunta sull’asfalto o delle nuove foglie germogliate sulle siepi e si sofferma a guardar fuori dalla finestra, anche adesso che non va più a scuola ma lavora otto ore al giorno davanti ad un PC. Grazie, grazie e ancora grazie perché questo per me non è mai stato un male di vivere, ma un grazie a chi mi fa amare e fa tutte le cose che la realtà richiama.


"E tu da dove sbuchi?"

foto di Annalisa V.

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Lasciarsi riempire di stupore di Marina Corradi
tratto da Tempi 12 maggio 2009

«Chi mi ha insegnato a non perdere tempo, così che se mi fermo a guardare una rosa tra le sbarre di un cancello mi rimprovero: non c’è tempo, andiamo? Quale ansia di laboriosità calvinista mi ha trasmesso la città dove sono nata?
In questi giorni di primo caldo e di primavera esplosiva mentre cammino per Milano intenta nel pensiero delle cose che ho da fare, mi scappa lo sguardo sul verde brillante, come neonato, delle siepi, o sull’aprirsi esitante delle rose nei cortili. L’odore dell’erba appena tagliata mi inebria, e mi incanto, a un semaforo, a contemplare il rosso fiamma dei papaveri disordinatamente spuntati fra i binari. C’è come questa interferenza nel corso dei quotidiani doverosi pensieri – banca, dentista, bollette – questa interferenza insistente che nelle mattine di maggio si insinua nell’ordine delle consuete incombenze, e mi distrae. Perché mi verrebbe da fermarmi davanti ai gelsomini fioriti e da annusarne il profumo per non poterlo più dimenticare; mi verrebbe da guardare ad uno ad uno i fiori delle bancarelle del mercato, giacché di ognuno la forma, e il colore, mi stupisce. Ma passo oltre: via, mi dico, hai tante cose a cui pensare.
Ma ho letto la catechesi del Papa del mercoledì 6 maggio, che cita san Giovanni Damasceno: «Bisogna lasciarsi riempire di stupore (thaumazein) da tutte le opere della provvidenza, tutte lodarle e tutte accettarle, superando la tentazione di individuare in esse aspetti che a molti sembrano ingiusti o iniqui e ammettendo invece che il progetto di Dio va al di là della capacità conoscitiva e comprensiva dell’uomo». Commenta Benedetto XVI: «Già Platone diceva che tutta la filosofia comincia con lo stupore. Anche la nostra fede comincia con lo stupore della creazione, della bellezza di Dio che si fa visibile».
Bisogna, dunque, «lasciarsi riempire di stupore». Detto così, sembra il primo umano dovere. Ma allora perché, chi mi ha insegnato a non perdere tempo, a non distrarmi, così che se mi fermo a guardare una rosa tra le sbarre di un cancello mi rimprovero: via, non c’è tempo, andiamo? Quale ansia di laboriosità calvinista mi ha trasmesso questa città dove sono nata, e come mai solo ora intuisco che è importante «lasciarsi riempire di stupore»? (Stupore, ecco, per la vite del Canada che di nuovo germoglia e si arrampica nell’angolo più buio del cortile).
Oppure è stato, in questa stessa bellezza, l’ombra del dolore a scandalizzarmi, a non lasciarmi vedere? Sul diario del ginnasio avevo copiato una poesia di Montale. La so ancora: «Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’accartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato». È stato lo scandalo del dolore e della morte a tenermi lontana dallo stupore? («Superare la tentazione di individuare aspetti che a molti sembrano iniqui o ingiusti»).
Certo non ho onorato questo compito fondante, di stare davanti alla realtà con occhi spalancati e grati. Quando per un momento tuttavia mi meraviglia la margherita che nasce in una crepa dell’asfalto, mi sgrido, come un bambino che a scuola guardi fuori dalla finestra, anziché alla lavagna. Ma la lavagna vera è questa mattina fulgente di maggio, in cui la vita sorge da ogni fessura.
Imparare a lasciarsi riempire di stupore. Ogni foglia, ogni profumo, come un segno di gesso su una lavagna. La formula è immensa, infinita, incomprensibile. Ma non occorre comprenderla. Basterebbe contemplarla. Basterebbe, pur senza capirla, docilmente amarla.»

2 commenti:

  1. ... e vedevo le cose con gli occhi di un bambino...

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  2. Se c’è una cosa che voglio, se c’è una cosa che vale
    è abitare la tua casa, tutto il resto è banale.
    E parlare con te
    di quand'ero piccino
    e vedevo le cose
    con gli occhi di un bambino.

    Ciao Maria Stella

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