23 dicembre 2009
Il Natale scomodo di certi insegnanti
Occorre aggiornare l’elenco dei nemici del (Santo) Natale e, per quanto paradossale ciò possa apparire, collocare al primo posto dell’immaginaria relativa graduatoria la libertà d’insegnamento, secondo la vulgata di uno sparuto gruppo di suoi maldestri titolari. Dice infatti la cronaca che, nella città di Cremona, un maestro, evidentemente insensibile agl’imperativi del risparmio energetico, ha tentato di sostituire le festa di Gesù Bambino con una non meglio precisata “Festa delle luci”, mentre a Cagliari due maestre, meno creative, ma altrettanto sensibili ai dettami del multiculturalismo, si sono limitate ad impedire alle scolaresche di partecipare ad una festa di Natale organizzata in collaborazione con altre scuole del quartiere nonché, par di capire, con alcuni rappresentanti dell’amministrazione comunale. L’intento dichiarato è stato, nei due casi, quello di non arrecare disagio agli alunni appartenenti ad altre religioni, e per legittimare la decisione si è invocato il principio della libertà d’insegnamento.
In entrambe le circostanze, insieme agli alunni, ai docenti, agli organizzatori e all’incolpevole Gesù Bambino, assurgono al ruolo di protagonisti i due dirigenti scolastici, ma con stili diversi e quasi contrapposti. Quello padano, al corrente di quanto andava maturando in una classe del suo istituto, è prontamente intervenuto a vietare l’incongrua iniziativa; la dirigente cagliaritana, dopo avere confessato che niente sapeva della decisione presa dalle maestre, le ha giustificate, considerando la loro iniziativa come espressione della libertà d’insegnamento e dell’autonomia didattica garantite dalla legge.
Chi ne avesse la voglia potrebbe trovare, nel guazzabuglio di norme che regolamentano la nostra scuola, e nelle prassi consolidate, argomenti a difesa di tutti e due i dirigenti oppure a condanna, con pari plausibilità, almeno sul piano formale. E questo non ci pare problema di poco conto, se consideriamo che dentro questo mondo scolastico dagli assetti funzionali così incerti e contraddittori vanno i nostri figli, ad apprendervi, tra le altre cose, l’educazione alla cittadinanza e al rispetto delle regole, che, come si sa, abbisognano di una cornice di principi e di criteri stabile e precisa.
Non è dato sapere se l’operato dei due dirigenti o quello di uno solo dei due (quale?), formerà oggetto di verifica ispettiva né quali ne saranno le risultanze, e nemmeno se l’operato dei docenti sarà anch’esso sottoposto ad analoga indagine. Nel frattempo, leggeremo sui giornali una dichiarazione del ministro più o meno indignata o perplessa e quelle, ovviamente bipartite, di due pedagogisti, i quali esprimeranno sui due casi giudizi di opposto tenore. E intanto qualcuno, volendo chiarire le cose, salirà in cattedra a spiegare che la questione rientra fra gli eventi resi possibili dal pluralismo delle società complesse, rinfocolando incertezze e confusione.
Ma la confusione invade anche la didattica, quando tra i percorsi dell’educazione interculturale figura il divieto di partecipare ad un’esperienza capace di far conoscere aspetti significativi di una religione diversa dalla propria. Andava semmai favorita e organizzata, a completamento del percorso formativo, un’esperienza inversa tesa a far conoscere ai nativi la religione dei migranti. Si dice che la contraddizione sia la morte del filosofo, ma le cose non vanno meglio quando a contraddirsi è l’insegnante, giacché ne va di mezzo l’efficacia dell’azione educativa.
C’è da chiedersi inoltre se, su un passaggio così importante come quello della censura nei riguardi della tradizione natalizia nostrana, profondamente radicata nella mente e nel cuore dei nostri bambini, si sia aperto il confronto, imprescindibile, con le famiglie degli alunni, anch’esse titolari di doveri e di diritti nel campo dell’educazione, e se la decisione delle maestre facesse riferimento a qualche documento interno avente per oggetto la programmazione educativa.
Se avevano tralasciato questi passaggi, qualcuno, il dirigente della scuola, doveva richiamarli e rammentarglielo, posto che la libertà d’insegnamento non è un privilegio concesso per sollevare i docenti dalla fatica del dialogo e del confronto all’interno della comunità scolastica, ma la condizione indispensabile per poter operare nel miglior modo possibile nell’esclusivo interesse dell’allievo.
di Gabriele Uras, tratto da ilsussidiario.net, 23 dicembre 2009
27 settembre 2009
Chi sostiene la famiglia italiana?
Oggi c'è stata la 2^ festa regionale delle famiglie numerose della Regione Lazio, ho sentito alla televisione un'intervista ad una delle tante famiglie presenti che solo in questa regione sono ben ventimila. Sentire la loro mamma che si definiva manager della sua famiglia e soprattutto vedere la gioia che sprizzava dagli occhi di ognuno dei sette figli della coppia, mi ha riempito il cuore di felicità.
E poi dicono che nessuno vuole più fare figli.
WELFARE/ La cattolica Italia vada a lezione da Francia e Germania
di Giorgio Vittadini
tratto da [ilsussidiario.net] 24 settembre 2009
In Francia, una politica economica fortemente orientata al sostegno delle famiglie impegnate nell'aiuto ad anziani e disabili, e nella crescita ed educazione dei minori, ha fatto sì che, anche nell’ultimo periodo di crisi, i consumi interni d’oltralpe non siano mai diminuiti. Per contro, non si può negare lo scarso peso che la famiglia ha nelle politiche economiche italiane di tutti gli schieramenti, al di là delle affermazioni di principio. In un suo recente lavoro, il professor Luigi Campiglio ha mostrato come la famiglia è un soggetto sociale, e anche economico, dove sono tenuti presenti equità ed efficienza. La famiglia è fattore di equità perché è un naturale ammortizzatore sociale capace di difendere e ridare forza alle cosiddette fasce deboli: i giovani in cerca di prima occupazione, gli anziani, i disabili, gli inabili, i disoccupati. Che nel nostro Paese la crisi non abbia raggiunto livelli apocalittici dipende anche dal fatto che esiste questo legame naturale dato dalla famiglia, che non è, come spesso si ritiene, un soggetto autoreferenziale, ma un insieme di persone che, esprimendo lo loro specifica personalità concorrono al bene di tutti, fulcro di ulteriori legami associativi, sociali, economici, religiosi. La famiglia è però anche fattore di efficienza perché forma, educa e finanzia continuamente il nuovo “capitale umano” fondamentale per lo sviluppo. C'è un altro aspetto, sottolineato da Campiglio, trascurato dal dibattito pubblico: una politica per la famiglia è fattore fondamentale anche per lo sviluppo di breve periodo. Nel nostro Paese, anche nel periodo pre-crisi 2000-2007, a fronte di un forte incremento delle esportazioni, il consumo interno ha sempre ristagnato costituendo la vera palla al piede dell’economia italiana. Non è strano se si tiene conto che, anche quando l’economia “tirava” mantenendosi competitiva a livello internazionale, le imprese italiane facevano fatica a tradurre in incrementi di salari e stipendi i risultati ottenuti. Vi sono certo molteplici ragioni da approfondire alla base di queste carenze, tra cui non può certamente mancare l’enorme pressione fiscale che, sotto le più diverse forme va a colpire in modo indiscriminato tutte le imprese, anche quelle che investono, occupano, esportano. In ogni caso, la conseguenza è che le famiglie più povere spendono il loro reddito quasi esclusivamente in consumi alimentari e abitativi. Mentre si devono trovare risposte di politica economica a riguardo di questo problema, non si può non ricordare che vi sarebbero strade alternative come quella francese. Chi non si riconoscesse nel sistema francese potrebbe fare riferimento al sistema tedesco dove questa essenzialità delle famiglie allo sviluppo è, pur con modalità differenti, sancita costituzionalmente e finanziariamente supportata con esiti positivi sulla stabilità e sullo sviluppo economico. È strano che in un Paese tradizionalmente cattolico e per decenni governato da un partito di ispirazione cattolica, la famiglia venga dimenticata nel suo valore economico. È uno degli esiti deleteri di una minorità culturale: chissà che nella Seconda Repubblica, finora avara di novità normative nel welfare, si riesca, per il bene di tutti, ad intraprendere la strada di un'evoluzione culturale, economica, sociale e politica in favore della famiglia.
E poi dicono che nessuno vuole più fare figli.
WELFARE/ La cattolica Italia vada a lezione da Francia e Germania
di Giorgio Vittadini
tratto da [ilsussidiario.net] 24 settembre 2009
In Francia, una politica economica fortemente orientata al sostegno delle famiglie impegnate nell'aiuto ad anziani e disabili, e nella crescita ed educazione dei minori, ha fatto sì che, anche nell’ultimo periodo di crisi, i consumi interni d’oltralpe non siano mai diminuiti. Per contro, non si può negare lo scarso peso che la famiglia ha nelle politiche economiche italiane di tutti gli schieramenti, al di là delle affermazioni di principio. In un suo recente lavoro, il professor Luigi Campiglio ha mostrato come la famiglia è un soggetto sociale, e anche economico, dove sono tenuti presenti equità ed efficienza. La famiglia è fattore di equità perché è un naturale ammortizzatore sociale capace di difendere e ridare forza alle cosiddette fasce deboli: i giovani in cerca di prima occupazione, gli anziani, i disabili, gli inabili, i disoccupati. Che nel nostro Paese la crisi non abbia raggiunto livelli apocalittici dipende anche dal fatto che esiste questo legame naturale dato dalla famiglia, che non è, come spesso si ritiene, un soggetto autoreferenziale, ma un insieme di persone che, esprimendo lo loro specifica personalità concorrono al bene di tutti, fulcro di ulteriori legami associativi, sociali, economici, religiosi. La famiglia è però anche fattore di efficienza perché forma, educa e finanzia continuamente il nuovo “capitale umano” fondamentale per lo sviluppo. C'è un altro aspetto, sottolineato da Campiglio, trascurato dal dibattito pubblico: una politica per la famiglia è fattore fondamentale anche per lo sviluppo di breve periodo. Nel nostro Paese, anche nel periodo pre-crisi 2000-2007, a fronte di un forte incremento delle esportazioni, il consumo interno ha sempre ristagnato costituendo la vera palla al piede dell’economia italiana. Non è strano se si tiene conto che, anche quando l’economia “tirava” mantenendosi competitiva a livello internazionale, le imprese italiane facevano fatica a tradurre in incrementi di salari e stipendi i risultati ottenuti. Vi sono certo molteplici ragioni da approfondire alla base di queste carenze, tra cui non può certamente mancare l’enorme pressione fiscale che, sotto le più diverse forme va a colpire in modo indiscriminato tutte le imprese, anche quelle che investono, occupano, esportano. In ogni caso, la conseguenza è che le famiglie più povere spendono il loro reddito quasi esclusivamente in consumi alimentari e abitativi. Mentre si devono trovare risposte di politica economica a riguardo di questo problema, non si può non ricordare che vi sarebbero strade alternative come quella francese. Chi non si riconoscesse nel sistema francese potrebbe fare riferimento al sistema tedesco dove questa essenzialità delle famiglie allo sviluppo è, pur con modalità differenti, sancita costituzionalmente e finanziariamente supportata con esiti positivi sulla stabilità e sullo sviluppo economico. È strano che in un Paese tradizionalmente cattolico e per decenni governato da un partito di ispirazione cattolica, la famiglia venga dimenticata nel suo valore economico. È uno degli esiti deleteri di una minorità culturale: chissà che nella Seconda Repubblica, finora avara di novità normative nel welfare, si riesca, per il bene di tutti, ad intraprendere la strada di un'evoluzione culturale, economica, sociale e politica in favore della famiglia.
11 settembre 2009
Adesso il mio incubo si chiama Ru486
Da sempre favorevole all’aborto, oggi Mara racconta il suo dramma. «Perché è ora che si indaghi su quello che succede negli ospedali»
di Benedetta Frigerio, tratto da [Tempi.it] 8 settembre 2009
«Me l’hanno dipinta come una pillola magica come per non lasciarmi alternative, così l’ho presa. Dopo cinque minuti mi hanno mandato a casa e li è iniziato il calvario». Mara (il nome è di fantasia) ha abortito utilizzando la pillola Ru486 due anni fa, quando ne aveva 26. Oggi che di aborto farmacologico si è ricominciato a parlare, dopo che l’Agenzia italiana per il farmaco ha approvato la commercializzazione della pillola, Mara scopre che quello che le è capitato non è un caso, che altre donne hanno sofferto come lei e che nel mondo si contano 29 decessi seguiti all’assunzione della pillola. «Perché nessuno ne parla? Perché dicono di agire per il bene delle donne e ti spiegano che sentirai solo dei dolorini? Forse qualcuno ci guadagna qualcosa?», si chiede oggi questa donna che si dice a favore della libera scelta delle donne in tema di aborto. Quasi avida di sapere tutto ciò che riguarda il “farmaco incubo” (così lo hanno chiamato in Cina dopo averlo ritirato dal mercato perché troppo pericoloso), Mara accetta di raccontare la sua storia a Tempi perché «spero che si faccia un’indagine su quello che fanno negli ospedali». «Per abortire mi sono rivolta al Centro salute donna di Piacenza, lì lavora la dottoressa che mi ha proposto la Ru486. Durante il colloquio la possibilità dell’aborto chirurgico è stata appena accennata. Il medico diceva che era un metodo invasivo e che si corrono seri rischi d’infezione, mentre con la pillola sarebbe stato tutto più semplice e sicuro, al massimo avrei sentito dei fastidi». Che le cose non stavano proprio così Mara avrebbe dovuto scoprirlo sulla sua pelle.
Prima della decisione dell’Aifa del 30 luglio scorso le diverse sperimentazioni della pillola (tra cui quella dell’ospedale di Torino guidata dal ginecologo radicale Silvio Viale) furono sostituite da una pratica che di fatto aggirava il divieto di vendita e prevedeva l’acquisto dall’estero della pillola in via nominale per ogni paziente. Un procedimento applicabile per certi medicinali non ancora in commercio in Italia ma approvati dall’Ente europeo per il controllo sui farmaci. «Non capivo, ma mi sono fidata com’è normale. Precisavano che la pillola sarebbe arrivata dalla Francia e continuavano a ripetermi che sarebbe stata tutta per me. Mi dicevano: “Guarda, la confezione che compriamo è da tre pillole, ma è solo tua, ne usiamo una e le altre due le buttiamo”. Su questo dettaglio insistevano, come a sottolineare che a loro quelle pasticche costavano ma lo facevano per me». A distanza di tempo Mara ricorda stranezze a cui sul momento non diede peso. «C’era qualcosa di strano: la pillola non l’ho ingoiata in ospedale ma nel Centro salute donna. Due giorni dopo sono tornata per prendere altre medicine. La dottoressa mi aspettava al Centro per accompagnarmi lei in ospedale. Mi fece passare dal retro come per non dare nell’occhio e appena arrivata mi mandò a firmare un foglio, così, diceva “risulti ricoverata in day hospital ma in realtà torni a casa”. Subito dopo mi hanno somministrato il secondo farmaco, stavolta per via vaginale. Erano delle pastigliette».
«Da sola non ce l’avrei fatta»
Il farmaco in pastiglie che in questi casi viene somministrato per via vaginale è il Cytotec. Un tempo usato nei casi di ulcera e in grado di provocare contrazioni, oggi è sconsigliato dalle autorità sanitarie mondiali come farmaco abortivo per via dei gravi effetti collaterali. Anche questo dettaglio Mara lo apprende soltanto ora. «La parte peggiore è stata quando sono uscita: non appena salita in macchina ho incominciato a sentire delle fitte insopportabili, mi sentivo venir meno e penso sempre che se fossi stata sola forse non sarei qui, probabilmente mi sarebbe capitato un incidente. Fortunatamente c’era il mio ragazzo. Altrimenti come avrei fatto a salire le scale su cui sono svenuta? Chi mi avrebbe accudito quando sono entrata in casa vomitando per ore con sbalzi ormonali pazzeschi, sensazioni di freddo e caldo continue e tachicardie ripetute, mentre la violenza delle contrazioni mi piegava in due? E i giorni seguenti quando sono dovuta rimanere a letto come avrei fatto ad andare in bagno o anche solo a mangiare?».
Spaventata, Mara pensa che qualcosa sia andato storto o di avere avuto una reazione allergica. «Chiamai la dottoressa che mi disse di tornare in ospedale solo nel caso di perdite emorragiche prolungate. Ho scoperto dopo che teoricamente dovevano farmi degli esami perché non tutti riescono a tollerare la pillola, ma a me di esami non ne hanno fatti». In effetti la procedura prevede di verificare l’assenza di ipertensione, aritmia, asma e allergia alle due pillole. In realtà i disagi subiti da Mara rientrano perfettamente negli effetti collaterali provocati dalla pillola.
Un caso simile viene raccontato a Tempi da Graziella, cofondatrice e volontaria del Centro d’aiuto alla vita di Trento. «Due anni fa – spiega – una donna rumena venne qui e ci disse che voleva abortire perché era in Italia da sola e non sarebbe riuscita a prendersi cura di quel figlio. Noi le spiegammo che l’avremmo sostenuta sia economicamente sia fisicamente, ma in lei vinse il sospetto che dietro quella gratuità si nascondesse qualche interesse e decise di interrompere la gravidanza. Andò all’ospedale Santa Chiara dove le proposero la Ru486 come il metodo più innocuo». La voce di Graziella si fa più acuta, a tratti rotta: «Quando la richiamai mi raccontò che era spaventata per le perdite continue. Le dissi di tornare in ospedale. Andò avanti così per giorni ripetendomi continuamente “sto da cani, sto da cani”. Poi, dopo qualche giorno, è scomparsa e non so cosa le sia successo. Mi viene una rabbia che non so frenare quando penso a come trattano queste donne», conclude Graziella. La rabbia sale anche a Mara che non capisce «come mai queste cose non siano rese pubbliche e nemmeno quale sia l’interesse a tenerle nascoste, quando sarebbe semplicissimo fare dei controlli per sapere cosa è successo alle tante che hanno abortito con quel farmaco».
Non solo il dolore fisico
Anche sul web non è facile trovare le storie di chi ha sofferto per la somministrazione della Ru486 in Italia. A Mara mostriamo un articolo apparso su La Repubblica di Firenze il 28 febbraio del 2008, che non è facile trovare in rete. Mara lo legge con attenzione, velocemente, mostrando di nuovo quella voracità di conoscere la storia di altre donne che hanno abortito come lei. L’articolo racconta di una ragazza che ha usato la Ru486, anche a lei è stato somministrato il Cytotec. «Con quel farmaco – dice la ragazza a Repubblica – ti rendi conto di tutto. È dura, capisci quello che fai e lo fai con le tue gambe. Sono state quelle settantadue ore il momento più difficile, ti resta addosso qualcosa. In quei giorni hai sentito suonare un campanello d’allarme, che ti ha messo in guardia perché stavi impedendo all’organismo di concludere una cosa che avevi iniziato».
C’è una parte molto peggiore del dolore fisico, ammette Mara. «C’è qualcosa di peggio. È stato quando sono andata in bagno per una semplice pipì, lì ho espulso tutto e ho visto il feto». Mara sgrana gli occhi, aprendo le mani come se avesse tra le dita un gomitolo. «Era grande così e non me lo dimenticherò mai». «Ci pensa spesso?», le domandiamo. «Sempre. Soprattutto al momento in cui ho visto il feto. Lì sei veramente sola anche se c’è qualcuno che ti sta a fianco, perché sei tu che hai dentro un figlio e sei tu che sei stata felice in quei mesi in cui te lo sentivi dentro». «Noi donne – è convinta Mara – siamo fatte anche fisicamente per la maternità, il nostro organismo sta bene quando ospita, e quando abortisci e induci le contrazioni gli fai fare qualcosa che è contro la sua natura. Ti tiri via una parte di te e ti senti svuotata. E sono convinta che con la violenza dell’aborto farmacologico lo senti anche di più».
Dev’essere per questo che la ragazzina di Empoli che un anno fa ha abortito con la Ru486 non vuole parlare con Tempi e la sua mamma che si era aperta alle volontarie del Cav della città ha poi deciso di tacere: non se la sentiva più di ripercorrere un’esperienza così dolorosa. «Credo che sia così», risponde Mara risollevando lo sguardo. «Non si parla tranquillamente di una cosa del genere, anche la mia storia la conosce appena il mio ragazzo». Mara ha deciso di parlare con Tempi, sapendo che non sarebbe stato facile rivivere quell’«esperienza che ti porti addosso per sempre, perché spero davvero che la mia storia serva a far sapere la verità su questa pillola».
Leggi sempre su Tempi gli articoli:
Firmi qui e vada pure a casa ad abortire
Ru486, verso l'indagine parlamentare
di Benedetta Frigerio, tratto da [Tempi.it] 8 settembre 2009
«Me l’hanno dipinta come una pillola magica come per non lasciarmi alternative, così l’ho presa. Dopo cinque minuti mi hanno mandato a casa e li è iniziato il calvario». Mara (il nome è di fantasia) ha abortito utilizzando la pillola Ru486 due anni fa, quando ne aveva 26. Oggi che di aborto farmacologico si è ricominciato a parlare, dopo che l’Agenzia italiana per il farmaco ha approvato la commercializzazione della pillola, Mara scopre che quello che le è capitato non è un caso, che altre donne hanno sofferto come lei e che nel mondo si contano 29 decessi seguiti all’assunzione della pillola. «Perché nessuno ne parla? Perché dicono di agire per il bene delle donne e ti spiegano che sentirai solo dei dolorini? Forse qualcuno ci guadagna qualcosa?», si chiede oggi questa donna che si dice a favore della libera scelta delle donne in tema di aborto. Quasi avida di sapere tutto ciò che riguarda il “farmaco incubo” (così lo hanno chiamato in Cina dopo averlo ritirato dal mercato perché troppo pericoloso), Mara accetta di raccontare la sua storia a Tempi perché «spero che si faccia un’indagine su quello che fanno negli ospedali». «Per abortire mi sono rivolta al Centro salute donna di Piacenza, lì lavora la dottoressa che mi ha proposto la Ru486. Durante il colloquio la possibilità dell’aborto chirurgico è stata appena accennata. Il medico diceva che era un metodo invasivo e che si corrono seri rischi d’infezione, mentre con la pillola sarebbe stato tutto più semplice e sicuro, al massimo avrei sentito dei fastidi». Che le cose non stavano proprio così Mara avrebbe dovuto scoprirlo sulla sua pelle.
Prima della decisione dell’Aifa del 30 luglio scorso le diverse sperimentazioni della pillola (tra cui quella dell’ospedale di Torino guidata dal ginecologo radicale Silvio Viale) furono sostituite da una pratica che di fatto aggirava il divieto di vendita e prevedeva l’acquisto dall’estero della pillola in via nominale per ogni paziente. Un procedimento applicabile per certi medicinali non ancora in commercio in Italia ma approvati dall’Ente europeo per il controllo sui farmaci. «Non capivo, ma mi sono fidata com’è normale. Precisavano che la pillola sarebbe arrivata dalla Francia e continuavano a ripetermi che sarebbe stata tutta per me. Mi dicevano: “Guarda, la confezione che compriamo è da tre pillole, ma è solo tua, ne usiamo una e le altre due le buttiamo”. Su questo dettaglio insistevano, come a sottolineare che a loro quelle pasticche costavano ma lo facevano per me». A distanza di tempo Mara ricorda stranezze a cui sul momento non diede peso. «C’era qualcosa di strano: la pillola non l’ho ingoiata in ospedale ma nel Centro salute donna. Due giorni dopo sono tornata per prendere altre medicine. La dottoressa mi aspettava al Centro per accompagnarmi lei in ospedale. Mi fece passare dal retro come per non dare nell’occhio e appena arrivata mi mandò a firmare un foglio, così, diceva “risulti ricoverata in day hospital ma in realtà torni a casa”. Subito dopo mi hanno somministrato il secondo farmaco, stavolta per via vaginale. Erano delle pastigliette».
«Da sola non ce l’avrei fatta»
Il farmaco in pastiglie che in questi casi viene somministrato per via vaginale è il Cytotec. Un tempo usato nei casi di ulcera e in grado di provocare contrazioni, oggi è sconsigliato dalle autorità sanitarie mondiali come farmaco abortivo per via dei gravi effetti collaterali. Anche questo dettaglio Mara lo apprende soltanto ora. «La parte peggiore è stata quando sono uscita: non appena salita in macchina ho incominciato a sentire delle fitte insopportabili, mi sentivo venir meno e penso sempre che se fossi stata sola forse non sarei qui, probabilmente mi sarebbe capitato un incidente. Fortunatamente c’era il mio ragazzo. Altrimenti come avrei fatto a salire le scale su cui sono svenuta? Chi mi avrebbe accudito quando sono entrata in casa vomitando per ore con sbalzi ormonali pazzeschi, sensazioni di freddo e caldo continue e tachicardie ripetute, mentre la violenza delle contrazioni mi piegava in due? E i giorni seguenti quando sono dovuta rimanere a letto come avrei fatto ad andare in bagno o anche solo a mangiare?».
Spaventata, Mara pensa che qualcosa sia andato storto o di avere avuto una reazione allergica. «Chiamai la dottoressa che mi disse di tornare in ospedale solo nel caso di perdite emorragiche prolungate. Ho scoperto dopo che teoricamente dovevano farmi degli esami perché non tutti riescono a tollerare la pillola, ma a me di esami non ne hanno fatti». In effetti la procedura prevede di verificare l’assenza di ipertensione, aritmia, asma e allergia alle due pillole. In realtà i disagi subiti da Mara rientrano perfettamente negli effetti collaterali provocati dalla pillola.
Un caso simile viene raccontato a Tempi da Graziella, cofondatrice e volontaria del Centro d’aiuto alla vita di Trento. «Due anni fa – spiega – una donna rumena venne qui e ci disse che voleva abortire perché era in Italia da sola e non sarebbe riuscita a prendersi cura di quel figlio. Noi le spiegammo che l’avremmo sostenuta sia economicamente sia fisicamente, ma in lei vinse il sospetto che dietro quella gratuità si nascondesse qualche interesse e decise di interrompere la gravidanza. Andò all’ospedale Santa Chiara dove le proposero la Ru486 come il metodo più innocuo». La voce di Graziella si fa più acuta, a tratti rotta: «Quando la richiamai mi raccontò che era spaventata per le perdite continue. Le dissi di tornare in ospedale. Andò avanti così per giorni ripetendomi continuamente “sto da cani, sto da cani”. Poi, dopo qualche giorno, è scomparsa e non so cosa le sia successo. Mi viene una rabbia che non so frenare quando penso a come trattano queste donne», conclude Graziella. La rabbia sale anche a Mara che non capisce «come mai queste cose non siano rese pubbliche e nemmeno quale sia l’interesse a tenerle nascoste, quando sarebbe semplicissimo fare dei controlli per sapere cosa è successo alle tante che hanno abortito con quel farmaco».
Non solo il dolore fisico
Anche sul web non è facile trovare le storie di chi ha sofferto per la somministrazione della Ru486 in Italia. A Mara mostriamo un articolo apparso su La Repubblica di Firenze il 28 febbraio del 2008, che non è facile trovare in rete. Mara lo legge con attenzione, velocemente, mostrando di nuovo quella voracità di conoscere la storia di altre donne che hanno abortito come lei. L’articolo racconta di una ragazza che ha usato la Ru486, anche a lei è stato somministrato il Cytotec. «Con quel farmaco – dice la ragazza a Repubblica – ti rendi conto di tutto. È dura, capisci quello che fai e lo fai con le tue gambe. Sono state quelle settantadue ore il momento più difficile, ti resta addosso qualcosa. In quei giorni hai sentito suonare un campanello d’allarme, che ti ha messo in guardia perché stavi impedendo all’organismo di concludere una cosa che avevi iniziato».
C’è una parte molto peggiore del dolore fisico, ammette Mara. «C’è qualcosa di peggio. È stato quando sono andata in bagno per una semplice pipì, lì ho espulso tutto e ho visto il feto». Mara sgrana gli occhi, aprendo le mani come se avesse tra le dita un gomitolo. «Era grande così e non me lo dimenticherò mai». «Ci pensa spesso?», le domandiamo. «Sempre. Soprattutto al momento in cui ho visto il feto. Lì sei veramente sola anche se c’è qualcuno che ti sta a fianco, perché sei tu che hai dentro un figlio e sei tu che sei stata felice in quei mesi in cui te lo sentivi dentro». «Noi donne – è convinta Mara – siamo fatte anche fisicamente per la maternità, il nostro organismo sta bene quando ospita, e quando abortisci e induci le contrazioni gli fai fare qualcosa che è contro la sua natura. Ti tiri via una parte di te e ti senti svuotata. E sono convinta che con la violenza dell’aborto farmacologico lo senti anche di più».
Dev’essere per questo che la ragazzina di Empoli che un anno fa ha abortito con la Ru486 non vuole parlare con Tempi e la sua mamma che si era aperta alle volontarie del Cav della città ha poi deciso di tacere: non se la sentiva più di ripercorrere un’esperienza così dolorosa. «Credo che sia così», risponde Mara risollevando lo sguardo. «Non si parla tranquillamente di una cosa del genere, anche la mia storia la conosce appena il mio ragazzo». Mara ha deciso di parlare con Tempi, sapendo che non sarebbe stato facile rivivere quell’«esperienza che ti porti addosso per sempre, perché spero davvero che la mia storia serva a far sapere la verità su questa pillola».
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Firmi qui e vada pure a casa ad abortire
Ru486, verso l'indagine parlamentare
13 agosto 2009
Il viaggio più bello è per casa
Puoi girare il mondo e vedere paesaggi stupendi, salire in cima al più alto grattacielo di New York e sentirti in capo al mondo, arrivare fino a terre quasi sconosciute e scoprire che ciò che ti manca è casa tua.
Sì per quanto l'uomo girovaghi cerca sempre la casa in cui tornare e posare il capo tra gli affetti dei suoi cari.
Molto bella questa immagine della Corradi che di ritorno dal Canada in aereo brama di scorgere le cascine lombarde e i campanili di Gallarate.
*************
di Marina Corradi, tratto da [Tempi.it]5 agosto 2009
Mesi fa, in Canada, l’idea che tra i figli e me ci fosse di mezzo l’oceano mi metteva la vertigine. Ma al ritorno, al ritorno è stato bello salire a bordo, assopirsi e pensare che ogni minuto ero di qualche chilometro più vicina
Da ragazza, mi piaceva più di tutto partire. Non importava per dove, ma meglio era se si andava lontano, in posti sconosciuti e diversi dall’Italia. Partire mi piace ancora, anche se, con gli anni, qualcosa mi lega sempre alle facce, alle voci e ai rumori di casa. E quindi ogni volta che vado via per lavoro mi accorgo che ciò che aspetto di più in fondo è il viaggio di ritorno. Il viaggio più bello è per casa.
E tanto più se sono stata via a lungo, e se sono andata lontano. Mesi fa, in Canada, l’idea che tra i figli e me ci fosse di mezzo l’oceano mi metteva la vertigine. Cercavo di non pensarci nel volo di andata, mentre il Boeing faceva prua verso ovest, e inesorabilmente andava incontro alla luce del giorno. Ma al ritorno, al ritorno invece è stato bello salire a bordo, assopirsi e pensare a quell’immenso mare di sotto, e a quanto veloce e sicuro il grosso aereo lo attraversava, e che ogni minuto ero di qualche chilometro più vicina a casa.
E poi, nel confuso chiarore dell’alba, bello ritrovare la distesa generosa dei campi attorno a Malpensa, e le cascine lombarde dalle corti ampie e quadrate. E distanze, fra un paesino e l’altro, piccole, da fare in bicicletta – non come in Canada, dove il treno correva per un’ora senza che potessi scorgere una fattoria, e dopo un po’ prendeva una inquietudine, quasi una sottile paura: nell’eco del fischio del locomotore che si perdeva in quella ampiezza infinita. Invece dal cielo sopra a Gallarate contemplavo i piccoli borghi di case ammassate attorno a un campanile, soddisfatta: questo è un posto per vivere, mi dicevo, gli uomini hanno bisogno di campanili, e di vicini. E anche il verde dei boschi mi pareva poi – allo sguardo affettuoso con cui lo contemplavo dal finestrino – diverso da quello sterminato del Quebec, inconfondibilmente familiare nei filari di betulle chiare e mansuete.
Il viaggio più bello è per casa. Quando l’aereo scende verso Linate e cerchi e trovi con gli occhi il binario largo dell’Autosole, e la barriera del casello. O, se torni di notte, il palpitare delle luci giallastre dei fanali delle strade, prima rade, poi sempre più fitte, finché sopra Milano il cielo è di un fosco rossiccio. E laggiù, in mezzo a questo mare metropolitano, una luce è quella di casa tua. Il suono metallico del carrello, l’aereo che docile si inclina verso terra, scende, scende, ecco le luci violette della pista. Stonf, il tonfo sordo delle ruote sull’asfalto, terra, sei tornata. Il piacere di sentire di nuovo parlare italiano. E l’odore di caffè del bar, e l’accento milanese del taxista che domanda: dove andiamo?
Lasciarsi andare sul sedile, mentre dici l’indirizzo, e abbassi il finestrino. Respirare a fondo: deve aver piovuto da poco, c’è odore di pioggia a Milano, ed è diverso dalla pioggia a Montreal, o a Strasburgo. Accarezzare dentro la tasca le chiavi: un quarto d’ora ancora. E intanto passi in rassegna vie e piazze ben note, ognuna delle quali ti ricorda qualcosa: tutto è rimasto uguale. La tua edicola, le finestre al secondo piano illuminate. Eccoci. Finalmente. Dove c’è chi ti aspetta. Il viaggio più bello è per casa.
Sì per quanto l'uomo girovaghi cerca sempre la casa in cui tornare e posare il capo tra gli affetti dei suoi cari.
Molto bella questa immagine della Corradi che di ritorno dal Canada in aereo brama di scorgere le cascine lombarde e i campanili di Gallarate.
*************
di Marina Corradi, tratto da [Tempi.it]5 agosto 2009
Mesi fa, in Canada, l’idea che tra i figli e me ci fosse di mezzo l’oceano mi metteva la vertigine. Ma al ritorno, al ritorno è stato bello salire a bordo, assopirsi e pensare che ogni minuto ero di qualche chilometro più vicina
Da ragazza, mi piaceva più di tutto partire. Non importava per dove, ma meglio era se si andava lontano, in posti sconosciuti e diversi dall’Italia. Partire mi piace ancora, anche se, con gli anni, qualcosa mi lega sempre alle facce, alle voci e ai rumori di casa. E quindi ogni volta che vado via per lavoro mi accorgo che ciò che aspetto di più in fondo è il viaggio di ritorno. Il viaggio più bello è per casa.
E tanto più se sono stata via a lungo, e se sono andata lontano. Mesi fa, in Canada, l’idea che tra i figli e me ci fosse di mezzo l’oceano mi metteva la vertigine. Cercavo di non pensarci nel volo di andata, mentre il Boeing faceva prua verso ovest, e inesorabilmente andava incontro alla luce del giorno. Ma al ritorno, al ritorno invece è stato bello salire a bordo, assopirsi e pensare a quell’immenso mare di sotto, e a quanto veloce e sicuro il grosso aereo lo attraversava, e che ogni minuto ero di qualche chilometro più vicina a casa.
E poi, nel confuso chiarore dell’alba, bello ritrovare la distesa generosa dei campi attorno a Malpensa, e le cascine lombarde dalle corti ampie e quadrate. E distanze, fra un paesino e l’altro, piccole, da fare in bicicletta – non come in Canada, dove il treno correva per un’ora senza che potessi scorgere una fattoria, e dopo un po’ prendeva una inquietudine, quasi una sottile paura: nell’eco del fischio del locomotore che si perdeva in quella ampiezza infinita. Invece dal cielo sopra a Gallarate contemplavo i piccoli borghi di case ammassate attorno a un campanile, soddisfatta: questo è un posto per vivere, mi dicevo, gli uomini hanno bisogno di campanili, e di vicini. E anche il verde dei boschi mi pareva poi – allo sguardo affettuoso con cui lo contemplavo dal finestrino – diverso da quello sterminato del Quebec, inconfondibilmente familiare nei filari di betulle chiare e mansuete.
Il viaggio più bello è per casa. Quando l’aereo scende verso Linate e cerchi e trovi con gli occhi il binario largo dell’Autosole, e la barriera del casello. O, se torni di notte, il palpitare delle luci giallastre dei fanali delle strade, prima rade, poi sempre più fitte, finché sopra Milano il cielo è di un fosco rossiccio. E laggiù, in mezzo a questo mare metropolitano, una luce è quella di casa tua. Il suono metallico del carrello, l’aereo che docile si inclina verso terra, scende, scende, ecco le luci violette della pista. Stonf, il tonfo sordo delle ruote sull’asfalto, terra, sei tornata. Il piacere di sentire di nuovo parlare italiano. E l’odore di caffè del bar, e l’accento milanese del taxista che domanda: dove andiamo?
Lasciarsi andare sul sedile, mentre dici l’indirizzo, e abbassi il finestrino. Respirare a fondo: deve aver piovuto da poco, c’è odore di pioggia a Milano, ed è diverso dalla pioggia a Montreal, o a Strasburgo. Accarezzare dentro la tasca le chiavi: un quarto d’ora ancora. E intanto passi in rassegna vie e piazze ben note, ognuna delle quali ti ricorda qualcosa: tutto è rimasto uguale. La tua edicola, le finestre al secondo piano illuminate. Eccoci. Finalmente. Dove c’è chi ti aspetta. Il viaggio più bello è per casa.
08 luglio 2009
Il G8 del Papa
Papa Benedetto XVI ha scritto a Silvio Berlusconi, presidente del vertice del G8 in qualità di leader del Paese ospitante, perché attraverso di lui il messaggio giunga ai grandi della terra, riuniti da mercoledì a L’Aquila per un summit che ha già assunto un rilievo simbolico straordinario. È il G8 che deve provare a dare risposte alla grande crisi, vincendo la debolezza cronica della politica nei confronti di un mercato ammalato ma che pretende in modo presuntuoso di bastare a se stesso.
La lettera, particolarmente accorata e drammatica, come già accaduto in passato prova a dare un contributo per l’agenda delle priorità. Le priorità del bene comune, di tutti e di ciascuno.
Scrive il Papa che le “sfide della crisi economico-finanziaria in corso” ma anche “i dati preoccupanti del fenomeno dei cambiamenti climatici” rendono necessario e urgente “un saggio discernimento e nuove progettualità per convertire il modello di sviluppo”, rendendolo capace “di promuovere, in maniera efficace, uno sviluppo umano integrale, ispirato ai valori della solidarietà umana e della carità nella verità”.
Verrebbe da pensare a un testo fortemente critico nei confronti del modello di sviluppo occidentale. Ma la chiave del suo ragionamento non è certamente di stampo anticapitalista né segnata da un’avversione ideologica al mercato. Meno che mai si espone ai rischi della pericolosa deriva (annusata con soddisfazione anche da una parte del mondo cattolico) verso l’utopia della decrescita. Su questo punto, a scanso di ogni equivoco, il Papa rimanda esplicitamente alla sua prima Enciclica sociale (la Caritas in veritate), la cui presentazione ufficiale avverrà proprio (e forse non casualmente) oggi, alla vigilia del vertice abruzzese.
Leggendo le anticipazioni ormai in circolo da qualche giorno, emerge in essa una visione armonica della realtà economica, in cui al centro non ci sono le regole (sempre più difficilmente garantite dagli Stati o dalle organizzazioni internazionali) o i meccanismi astratti (la mitica “mano invisibile” di un mercato presunto autosufficiente), ma l’uomo con le sue esigenze costitutive, i suoi desideri di bene, di felicità, di giustizia. Il mercato, scrive Benedetto XVI nella sua terza Enciclica, “è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone […] per soddisfare i loro bisogni e desideri”. Ma per sua natura (perché così è la natura dell’uomo e di tutto ciò che costruisce) “non è in grado di produrre da sé ciò che va oltre le sue possibilità. Esso deve attingere energie morali da altri soggetti, che sono capaci di generarle”. Il mercato insomma ha bisogno di essere immerso in una realtà sociale più ampia, che lo rifornisca di fiducia, gratuità, giustizia. Altrimenti, sono guai.
Analizzata attraverso queste pagine di adamantina ragionevolezza, la lettera ai grandi della terra assume allora un significato ancora più stringente. Per arrestare la crisi, per provare a vincere la povertà e la miseria, non servono i grandi progetti astratti, le politiche calate dall’alto, il paternalismo dello Stato assistenziale. E non basta nemmeno lasciar andare il mercato a briglia ancora più sciolta. Al contrario, serve un investimento deciso sulla “risorsa umana”, principale soluzione alla crisi che ci investe. E come si fa a investire sulle persone, sul capitale umano? Passando attraverso l’educazione, la sussidiarietà e il lavoro.
Una proposta essenziale, quella del Papa, in cui gli Stati e le organizzazioni internazionali sono chiamati a sostenere, non a sostituire, gli sforzi profusi innanzitutto dalla Chiesa e dalle altre confessioni religiose, direttamente o attraverso le rete delle organizzazioni non governative presenti in ogni angolo del globo.
Questa è la vera sfida che la politica è chiamata a raccogliere. Al di là di un’antistorica distinzione tra un mercato irrimediabilmente perverso e uno Stato naturalmente portatore esclusivo di un principio di giustizia, e oltre ogni pretesa (o speranza) di una governance globale che sembra sempre più assomigliare ad una chimera.
di Luca Pesenti tratto da [ilsussidiario.net] 7 luglio 2009
La lettera, particolarmente accorata e drammatica, come già accaduto in passato prova a dare un contributo per l’agenda delle priorità. Le priorità del bene comune, di tutti e di ciascuno.
Scrive il Papa che le “sfide della crisi economico-finanziaria in corso” ma anche “i dati preoccupanti del fenomeno dei cambiamenti climatici” rendono necessario e urgente “un saggio discernimento e nuove progettualità per convertire il modello di sviluppo”, rendendolo capace “di promuovere, in maniera efficace, uno sviluppo umano integrale, ispirato ai valori della solidarietà umana e della carità nella verità”.
Verrebbe da pensare a un testo fortemente critico nei confronti del modello di sviluppo occidentale. Ma la chiave del suo ragionamento non è certamente di stampo anticapitalista né segnata da un’avversione ideologica al mercato. Meno che mai si espone ai rischi della pericolosa deriva (annusata con soddisfazione anche da una parte del mondo cattolico) verso l’utopia della decrescita. Su questo punto, a scanso di ogni equivoco, il Papa rimanda esplicitamente alla sua prima Enciclica sociale (la Caritas in veritate), la cui presentazione ufficiale avverrà proprio (e forse non casualmente) oggi, alla vigilia del vertice abruzzese.
Leggendo le anticipazioni ormai in circolo da qualche giorno, emerge in essa una visione armonica della realtà economica, in cui al centro non ci sono le regole (sempre più difficilmente garantite dagli Stati o dalle organizzazioni internazionali) o i meccanismi astratti (la mitica “mano invisibile” di un mercato presunto autosufficiente), ma l’uomo con le sue esigenze costitutive, i suoi desideri di bene, di felicità, di giustizia. Il mercato, scrive Benedetto XVI nella sua terza Enciclica, “è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone […] per soddisfare i loro bisogni e desideri”. Ma per sua natura (perché così è la natura dell’uomo e di tutto ciò che costruisce) “non è in grado di produrre da sé ciò che va oltre le sue possibilità. Esso deve attingere energie morali da altri soggetti, che sono capaci di generarle”. Il mercato insomma ha bisogno di essere immerso in una realtà sociale più ampia, che lo rifornisca di fiducia, gratuità, giustizia. Altrimenti, sono guai.
Analizzata attraverso queste pagine di adamantina ragionevolezza, la lettera ai grandi della terra assume allora un significato ancora più stringente. Per arrestare la crisi, per provare a vincere la povertà e la miseria, non servono i grandi progetti astratti, le politiche calate dall’alto, il paternalismo dello Stato assistenziale. E non basta nemmeno lasciar andare il mercato a briglia ancora più sciolta. Al contrario, serve un investimento deciso sulla “risorsa umana”, principale soluzione alla crisi che ci investe. E come si fa a investire sulle persone, sul capitale umano? Passando attraverso l’educazione, la sussidiarietà e il lavoro.
Una proposta essenziale, quella del Papa, in cui gli Stati e le organizzazioni internazionali sono chiamati a sostenere, non a sostituire, gli sforzi profusi innanzitutto dalla Chiesa e dalle altre confessioni religiose, direttamente o attraverso le rete delle organizzazioni non governative presenti in ogni angolo del globo.
Questa è la vera sfida che la politica è chiamata a raccogliere. Al di là di un’antistorica distinzione tra un mercato irrimediabilmente perverso e uno Stato naturalmente portatore esclusivo di un principio di giustizia, e oltre ogni pretesa (o speranza) di una governance globale che sembra sempre più assomigliare ad una chimera.
di Luca Pesenti tratto da [ilsussidiario.net] 7 luglio 2009
04 luglio 2009
Chesterton beato?
Pochi non conoscono lo scrittore Gilbert Keith Chesterton, giornalista, poeta e scrittore londinese. Anglicano, a 48 anni si convertì al cattolicesimo grazie all'amicizia con un sacerdote irlandese, padre John O'Connor, a lui Chesterton si ispirò per dar vita al personaggio principale di molti suoi libri da cui nacque in seguito anche ad una lunga serie di film: padre Brown.
Ma pochi sanno che grazie a lui molte altre persone si sono convertite.
Una sua celebre frase ben si adatta al gossip politico imperante di questi tempi:
****************
Cesterton beato?
di Lorenzo Fazzini tratto da [Avvenire] 3 luglio 2009
Chissà se dovremo chiamarlo S. GKC. Se con le ultime tre lettere viene abbreviato il suo appellativo, quella «S.» potrebbe stare per «San». E in questo modo la verve polemica e la scrittura folgorante di Gilbert Keith Chesterton arriverebbero direttamente sugli altari di Santa Romana Chiesa.
A questo aspira l’incontro promosso domani, sabato 4 luglio, dalla società letteraria a lui dedicata in Gran Bretagna: verificare se quell’indicazione di «persona santa» che il cardinale Emmett Carter gli assegnò post-mortem possa valere del tutto. «La santità di G.K.Chesterton» è il titolo del convegno che si terrà nella cappellania cattolica della Oxford University a St. Aldate’s. I relatori sono di massimo prestigio nel campo degli studi chestertoniani: ad aprire i lavori sarà il presidente della Chesterton Society inglese, William Oddie, che parlerà su «Fede, speranza e carità: le virtù fondamentali di Chesterton», con riferimento alla pratica «eroica» delle virtù che la Chiesa domanda come requisito per aprire una causa. A seguire Sheridan Gilley analizzerà la «santità di GKC come giornalista», mentre padre Ian Kerr si concentrerà sulla relazione tra «humour e santità» nell’inventore di padre Brown. Il pomeriggio vedrà il domenicano Aidan Nichols indagare sulla possibile dimensione di «padre della Chiesa» del romanziere britannico. Già papa Pio IX, alla sua morte, inviò un telegramma alla famiglia ricordando Chesterton come «grande difensore della fede cattolica». Affermazione che fa dire a Oddie: «Questo suona quasi come una sorta di informale dichiarazione che Chesterton è stato un Dottore della Chiesa».
Ma c’è anche chi non pensa di vedere l’autore di Ortodossia come beato: il giornalista inglese A.N. Wilson (che di recente sulla rivista progressista New Statesmen ha dichiarato di essersi convertito al cattolicesimo) considera «assurda e bizzarra» tale possibilità. Ma i «chestertoniani» di ferro scaldano i motori in vista dell’assise di Oxford: «Penso ci sia una grande evidenza della santità di Chesterton: le testimonianze sul suo conto parlano di una persona di grande bontà e umiltà, un uomo senza nemici», spiega ad Avvenire Dale Ahlquist, presidente dell’American Chesterton Society con sede a Minneapolis. «La sua grandezza sta anche nel fatto che presentava una prospettiva cristiana ad un uditorio laico. I suoi libri (Ortodossia, San Francesco d’Assisi o San Tommaso d’Aquino per citarne alcuni) sono brillanti presentazioni della fede cristiana». Ahlquist punta anche sulla conoscenza che l’attuale pontefice ha del narratore inglese: «Benedetto XVI ha letto e citato Chesterton. La gente sta iniziando a capire che la sua analisi profetica sul nostro tempo è notevole».
Lo stesso Oddie, dalle colonne di The Catholic Herald, giornale cattolico britannico, racconta un aneddoto significativo: «L’anno scorso, all’annuale conferenza dell’American Chesterton Society, mi è stato chiesto a che punto fosse la causa di beatificazione di Chesterton. Dissi che non c’era nessuna causa. L’uditorio reagì con incredulità. Io replicai che per aprire un iter di beatificazione ci deve essere un’evidente fama di santità. Un uomo si alzò e, indicando i 500 presenti, disse: perché pensa che siamo qui?». Tra gli ammiratori di GKC ve ne sono alcuni, poi, che proprio grazie a questo convertito hanno (ri)scoperto la fede. Joseph Pearce, docente di letteratura all’Ave Maria University in Florida e autore di diversi saggi sui «convertiti letterari» (C.S. Lewis, J. H. Newman, J.R. Tolkien e altri), è uno di questi: «incontrò» GKC in una prigione inglese, incarcerato in quanto xenofobo. E la razionalità spirituale del suo argomentare lo convinse a diventare cattolico. «Chesterton è all’origine anche della mia conversione», conferma Alhquist.
Ma quali sono gli elementi della personalità di GKC che lo potrebbero condurre agli onori dell’altare? Nel suo saggio su The Catholic Herald Oddie ne indica alcuni. Anzitutto, l’adesione completa a Dio, concretizzatosi con la conversione al cattolicesimo nel 1922: «C’è un momento, nella vita di molti santi, in cui la crisi personale viene seguita da un incontro personale con Dio che causa un cambiamento completo». Poi, il senso di pentimento: Oddie svela un verso inedito di Chesterton, trovato mentre preparava il suo libro Chesterton and the Romance of Orthodoxy: «C’è un segreto per la vita/il segreto di una constante espiazione». Poi, la costante ricerca di Dio dell’autore di L’uomo che fu Giovedì. Ascoltiamo le parole inedite - dell’interessato, da un poema intitolato The walk : «Hai mai saputo cosa è camminare/lungo una strada dentro un certo pensiero/in cui tu potresti immaginare di poter incontrare Dio ad ogni punto del cammino?».
Una ricerca quasi mistica, come testimoniò un suo amico, Rann Kennedy, al biografo Maisie Ward: «Gilbert era sempre impegnato con un mondo 'altro'. Per spiegare chi era dobbiamo ricorrere alla categoria degli eremiti. Era innocente, semplice, profondamente umile. Gioiva di una perpetua eucaristia del desiderio». Rimarca ancora Oddie, riferendosi ai mitici scontri di Chesterton con intellettuali atei come H.G. Wells e George Bernard Shaw: «Odiava l’eresia, ma aveva una straordinaria capacità di amare l’eretico». E l’amico scrittore Hilaire Belloc diceva: «Non solo capiva le qualità dei suoi oppositori, ma anche le ammirava. Per questo è stato universalmente amato».
Ma pochi sanno che grazie a lui molte altre persone si sono convertite.
Una sua celebre frase ben si adatta al gossip politico imperante di questi tempi:
Se c'è qualcosa di peggio dell'odierno indebolirsi dei grandi principi morali, è l'odierno irrigidirsi dei piccoli principi morali.Proprio oggi in Gran Bretagna si parla di lui e della sua santità.
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Cesterton beato?
di Lorenzo Fazzini tratto da [Avvenire] 3 luglio 2009
Chissà se dovremo chiamarlo S. GKC. Se con le ultime tre lettere viene abbreviato il suo appellativo, quella «S.» potrebbe stare per «San». E in questo modo la verve polemica e la scrittura folgorante di Gilbert Keith Chesterton arriverebbero direttamente sugli altari di Santa Romana Chiesa.
A questo aspira l’incontro promosso domani, sabato 4 luglio, dalla società letteraria a lui dedicata in Gran Bretagna: verificare se quell’indicazione di «persona santa» che il cardinale Emmett Carter gli assegnò post-mortem possa valere del tutto. «La santità di G.K.Chesterton» è il titolo del convegno che si terrà nella cappellania cattolica della Oxford University a St. Aldate’s. I relatori sono di massimo prestigio nel campo degli studi chestertoniani: ad aprire i lavori sarà il presidente della Chesterton Society inglese, William Oddie, che parlerà su «Fede, speranza e carità: le virtù fondamentali di Chesterton», con riferimento alla pratica «eroica» delle virtù che la Chiesa domanda come requisito per aprire una causa. A seguire Sheridan Gilley analizzerà la «santità di GKC come giornalista», mentre padre Ian Kerr si concentrerà sulla relazione tra «humour e santità» nell’inventore di padre Brown. Il pomeriggio vedrà il domenicano Aidan Nichols indagare sulla possibile dimensione di «padre della Chiesa» del romanziere britannico. Già papa Pio IX, alla sua morte, inviò un telegramma alla famiglia ricordando Chesterton come «grande difensore della fede cattolica». Affermazione che fa dire a Oddie: «Questo suona quasi come una sorta di informale dichiarazione che Chesterton è stato un Dottore della Chiesa».
Ma c’è anche chi non pensa di vedere l’autore di Ortodossia come beato: il giornalista inglese A.N. Wilson (che di recente sulla rivista progressista New Statesmen ha dichiarato di essersi convertito al cattolicesimo) considera «assurda e bizzarra» tale possibilità. Ma i «chestertoniani» di ferro scaldano i motori in vista dell’assise di Oxford: «Penso ci sia una grande evidenza della santità di Chesterton: le testimonianze sul suo conto parlano di una persona di grande bontà e umiltà, un uomo senza nemici», spiega ad Avvenire Dale Ahlquist, presidente dell’American Chesterton Society con sede a Minneapolis. «La sua grandezza sta anche nel fatto che presentava una prospettiva cristiana ad un uditorio laico. I suoi libri (Ortodossia, San Francesco d’Assisi o San Tommaso d’Aquino per citarne alcuni) sono brillanti presentazioni della fede cristiana». Ahlquist punta anche sulla conoscenza che l’attuale pontefice ha del narratore inglese: «Benedetto XVI ha letto e citato Chesterton. La gente sta iniziando a capire che la sua analisi profetica sul nostro tempo è notevole».
Lo stesso Oddie, dalle colonne di The Catholic Herald, giornale cattolico britannico, racconta un aneddoto significativo: «L’anno scorso, all’annuale conferenza dell’American Chesterton Society, mi è stato chiesto a che punto fosse la causa di beatificazione di Chesterton. Dissi che non c’era nessuna causa. L’uditorio reagì con incredulità. Io replicai che per aprire un iter di beatificazione ci deve essere un’evidente fama di santità. Un uomo si alzò e, indicando i 500 presenti, disse: perché pensa che siamo qui?». Tra gli ammiratori di GKC ve ne sono alcuni, poi, che proprio grazie a questo convertito hanno (ri)scoperto la fede. Joseph Pearce, docente di letteratura all’Ave Maria University in Florida e autore di diversi saggi sui «convertiti letterari» (C.S. Lewis, J. H. Newman, J.R. Tolkien e altri), è uno di questi: «incontrò» GKC in una prigione inglese, incarcerato in quanto xenofobo. E la razionalità spirituale del suo argomentare lo convinse a diventare cattolico. «Chesterton è all’origine anche della mia conversione», conferma Alhquist.
Ma quali sono gli elementi della personalità di GKC che lo potrebbero condurre agli onori dell’altare? Nel suo saggio su The Catholic Herald Oddie ne indica alcuni. Anzitutto, l’adesione completa a Dio, concretizzatosi con la conversione al cattolicesimo nel 1922: «C’è un momento, nella vita di molti santi, in cui la crisi personale viene seguita da un incontro personale con Dio che causa un cambiamento completo». Poi, il senso di pentimento: Oddie svela un verso inedito di Chesterton, trovato mentre preparava il suo libro Chesterton and the Romance of Orthodoxy: «C’è un segreto per la vita/il segreto di una constante espiazione». Poi, la costante ricerca di Dio dell’autore di L’uomo che fu Giovedì. Ascoltiamo le parole inedite - dell’interessato, da un poema intitolato The walk : «Hai mai saputo cosa è camminare/lungo una strada dentro un certo pensiero/in cui tu potresti immaginare di poter incontrare Dio ad ogni punto del cammino?».
Una ricerca quasi mistica, come testimoniò un suo amico, Rann Kennedy, al biografo Maisie Ward: «Gilbert era sempre impegnato con un mondo 'altro'. Per spiegare chi era dobbiamo ricorrere alla categoria degli eremiti. Era innocente, semplice, profondamente umile. Gioiva di una perpetua eucaristia del desiderio». Rimarca ancora Oddie, riferendosi ai mitici scontri di Chesterton con intellettuali atei come H.G. Wells e George Bernard Shaw: «Odiava l’eresia, ma aveva una straordinaria capacità di amare l’eretico». E l’amico scrittore Hilaire Belloc diceva: «Non solo capiva le qualità dei suoi oppositori, ma anche le ammirava. Per questo è stato universalmente amato».
17 giugno 2009
Fecondazione
Un tempo lo slogan era "l'utero è mio e lo gestisco io", ora si potrebbe dire "il figlio è mio e deve essere come lo voglio io: su misura". Recentemente in Svezia è stato concesso ad una madre di abortire una bimba solo perché voleva un maschio, ora in Irlanda a causa di un errore nella fecondazione assistita nasce un bimbo dalla pelle scura e i genitori sono bianchi. Dicono che non c'è limite al peggio, dove arriveremo con questa pretesa del figlio su misura?
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Il bambino di colore e la discriminazione del “clinicamente corretto”
di Carlo Bellieni (neonatologo) tratto da [ilsussidiario.net] 17.6.2009
"In Irlanda una coppia ha concepito in vitro un bimbo, ma per errore l’ospedale avrebbe usato spermatozoi di un donatore africano, determinando la nascita di un bimbo dalla pelle scura.
Il fatto di cronaca dello scambio di spermatozoi in una fecondazione in vitro non è nuovo e sarebbe preoccupante etichettarlo come l’ennesima prova dei limiti della fecondazione in vitro, perché sarebbe considerare “un fallimento” aver avuto un figlio di colore: sarebbe stato un fallimento clinico se la coppia avesse usato il proprio seme e questo fosse stato scambiato con quello di un estraneo, ma qui già si sapeva che il seme non era del padre. Quindi qui l’unico “nocumento” è il colore della pelle, e ci rifiutiamo di pensarlo come tale.
Quello che ci preoccupa allora è che qualcuno si inalberi perché la “richiesta su misura” non sia riuscita. Quello che colpisce è infatti la reazione: si voleva il figlio uguale a sé e ora si è persi, disorientati. Il padre dice che l’errore ha fatto nascere un figlio con la pelle scura che soffrirà perché sarà trattato in maniera discriminatoria dagli altri bambini. Ma ci riesce difficile credere che in Europa oggi qualcuno venga bullizzato per il colore della pelle. In Italia non accade e se accade chi ci prova viene giustamente punito. Nel civile Regno Unito le cose starebbero peggio che da noi?
Altro segnale di disorientamento è sentir dire che «alla madre viene chiesto se ha avuto una relazione con un altro uomo, mentre il padre teme che quando dirà la verità al bambino questi la rifiuterà». Ma oggi è normale vedere coppie con figli di etnia diversa per le possibilità adottive; e non c’è angoscia nello spiegare al figlio – vedi gli adottati – che i suoi genitori non sono precisamente il suo papà e mamma.
Dunque il segnale di disorientamento dei genitori al non veder corrisposte le proprie aspettative emerge chiaro.
In fondo il caso è solo la storia di un bambino “speciale” e dei problemi di suo padre che lo voleva diverso. In realtà dire “solo” è riduttivo: è un film già visto: quanti padri hanno avuto figli “speciali” e quanti sono rimasti delusi… ma pensavamo che avere un figlio “diverso” e viverlo come una delusione fosse un film del secolo scorso.
Insomma, il problema della fecondazione in vitro fa emergere un problema ben più grave: il figlio su misura: si sceglie il sesso, l’incarnato e si eliminano senza ripensamenti quelli che non ci sono venuti bene! O si denuncia. Ma cosa c’è di strano, dato che questo è il criterio con cui, in maniera “meno sottile” si eliminano i figli non voluti o venuti “male” dopo una ricerca al setaccio (screening) prenatale, mentre ormai stanno crescendo nell’utero di mamma? La fecondazione in vitro è solo un segno: il problema vero è più sotto".
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Il bambino di colore e la discriminazione del “clinicamente corretto”
di Carlo Bellieni (neonatologo) tratto da [ilsussidiario.net] 17.6.2009
"In Irlanda una coppia ha concepito in vitro un bimbo, ma per errore l’ospedale avrebbe usato spermatozoi di un donatore africano, determinando la nascita di un bimbo dalla pelle scura.
Il fatto di cronaca dello scambio di spermatozoi in una fecondazione in vitro non è nuovo e sarebbe preoccupante etichettarlo come l’ennesima prova dei limiti della fecondazione in vitro, perché sarebbe considerare “un fallimento” aver avuto un figlio di colore: sarebbe stato un fallimento clinico se la coppia avesse usato il proprio seme e questo fosse stato scambiato con quello di un estraneo, ma qui già si sapeva che il seme non era del padre. Quindi qui l’unico “nocumento” è il colore della pelle, e ci rifiutiamo di pensarlo come tale.
Quello che ci preoccupa allora è che qualcuno si inalberi perché la “richiesta su misura” non sia riuscita. Quello che colpisce è infatti la reazione: si voleva il figlio uguale a sé e ora si è persi, disorientati. Il padre dice che l’errore ha fatto nascere un figlio con la pelle scura che soffrirà perché sarà trattato in maniera discriminatoria dagli altri bambini. Ma ci riesce difficile credere che in Europa oggi qualcuno venga bullizzato per il colore della pelle. In Italia non accade e se accade chi ci prova viene giustamente punito. Nel civile Regno Unito le cose starebbero peggio che da noi?
Altro segnale di disorientamento è sentir dire che «alla madre viene chiesto se ha avuto una relazione con un altro uomo, mentre il padre teme che quando dirà la verità al bambino questi la rifiuterà». Ma oggi è normale vedere coppie con figli di etnia diversa per le possibilità adottive; e non c’è angoscia nello spiegare al figlio – vedi gli adottati – che i suoi genitori non sono precisamente il suo papà e mamma.
Dunque il segnale di disorientamento dei genitori al non veder corrisposte le proprie aspettative emerge chiaro.
In fondo il caso è solo la storia di un bambino “speciale” e dei problemi di suo padre che lo voleva diverso. In realtà dire “solo” è riduttivo: è un film già visto: quanti padri hanno avuto figli “speciali” e quanti sono rimasti delusi… ma pensavamo che avere un figlio “diverso” e viverlo come una delusione fosse un film del secolo scorso.
Insomma, il problema della fecondazione in vitro fa emergere un problema ben più grave: il figlio su misura: si sceglie il sesso, l’incarnato e si eliminano senza ripensamenti quelli che non ci sono venuti bene! O si denuncia. Ma cosa c’è di strano, dato che questo è il criterio con cui, in maniera “meno sottile” si eliminano i figli non voluti o venuti “male” dopo una ricerca al setaccio (screening) prenatale, mentre ormai stanno crescendo nell’utero di mamma? La fecondazione in vitro è solo un segno: il problema vero è più sotto".
28 maggio 2009
Dedicato
23 maggio 2009
Cosa resta vivo di Pisacane?
Giorni fa si è fatto un gran chiasso perché una scuola elementare romana intitolata a Pisacane aveva deciso di cambiare il nome a favore di un pedagogista giapponese.
Chi si ricorda di Pisacane e dei suoi "eran trecento, eran giovani e forti" che morirono in nome di un'utopica libertà socialista? Probabilmente nessuno.
In nome di un multiculturalismo fasullo si rivede la storia a proprio piacimento, un po' come chi a Milano vuole assegnare a degli stranieri l'Ambrogino, il mitico premio nato per quei milanesi che hanno eccelso in qualcosa di importante per la loro città.
Su questa faccenda di Pisacane, eccovi cosa ne pensano il mio amico Berlicche e Pigi Colognesi in un editoriale tratto da Il sussidiario.net
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Berlicche
Sarò cattivo.
Il nome Pisacane è stato dato dall’elite massonica che governava la città centovent’anni fa. In spregio ai cattolici, diedero alle scuole i nomi dei maggiori oppositori allo Stato Pontificio, compreso quello di un cretino e illuso come Pisacane che tentò una rivoluzione velleitaria armi in pugno e finì ammazzato – e, data la sua preparazione, non poteva finire altrimenti. Peccato che con lui morirono anche altri innocenti, i soldati-contadini che lo affrontarono e quei deficienti che lo seguirono. Un bell’esempio per la gioventù: un Che Guevara un poco più sfigato.
Adesso quella stessa elite si è prima comunistificata, e Pisacane andava ancora, e poi ha perso Marx e ogni altro riferimento. Le sono rimaste idee confuse, sessantottine, e non credendo più neanche nel pan cotto non le sono rimaste che confuse teorie pedagogiche. Makigughi per costoro è più reale di Pisacane, perché a forza di sradicare hanno sradicato le proprie radici, anche quelle cattive. Non è questione di multiculturalismo, è questione che non si sa chi si è. E quando non si sa chi si è, sono gli altri a dirti chi sei.
di Pigi Colognesi tratto da [ilsussidiario.net]
Il caso sembra ormai chiuso, ma vale la pena di trarne comunque qualche riflessione. Il caso è quello della scuola materna ed elementare di Roma che aveva deciso di cambiare il proprio nome: invece che all’eroe risorgimentale Carlo Pisacane, si sarebbe intitolata al pedagogista giapponese Tsunesaburo Makiguchi. Motivo? La scuola è frequentata in gran parte da stranieri; ragion per cui risulterebbe più accettabile uno studioso nipponico (siamo nell’epoca della globalizzazione, no?) che un patriota italiano. Proprio su queste motivazioni si sono appuntate aspre critiche: così si perde l’identità nazionale, non è questa la strada giusta per l’integrazione degli stranieri, eccetera. La scuola ha fatto retromarcia e Pisacane dovrebbe rimanere al suo posto.
Viene subito da pensare che Makiguchi e Pisacane sono accomunati da un dettaglio non irrilevante: sono entrambi pressoché sconosciuti - alzi la mano chi ne sa di più sull’italiano che non sul giapponese - e quindi l’uno vale l’altro. Ma sarebbe una conclusione affrettata. L’intitolazione di uno spazio pubblico, infatti, riveste un carattere simbolico, la cui importanza sembra a prima vista sfuggire, ma è molto importante. A fine Ottocento, per esempio, molti consigli comunali italiani dedicarono numerose sedute e affrontarono scontri politici rilevanti al solo scopo di intitolare una strada o una piazza a Giordano Bruno. L’intento era chiaro: i fautori di questa scelta non erano interessati alla sorte del frate bruciato a Roma nel 1600; a loro interessava porre un inequivocabile segno di anticlericalismo negli spazi comuni della convivenza civile. Tutti quelli che avrebbero visto il nome di quella piazza o scritto su una lettera l’indirizzo «via Giordano Bruno» avrebbero pensato a quanto fosse stata scellerata la Chiesa cattolica e tratto le debite conseguenze. Insomma, è per un interesse presente che si decide di celebrare questo o quel personaggio del passato.
Ma allora occorre che l’interesse presente sia realmente vivo e vissuto. Altrimenti il valore passato che si vuole celebrare (in questo caso la – presunta – identità nazionale sgorgata dal risorgimento) e il personaggio che lo incarna (in questo caso Pisacane) non restano altro che reperti archeologici, del tutto insignificanti.
La piazza principale del paese dove ho fatto le scuole elementari è dedicata a Quintino di Vona, un militante antifascista lì fucilato nel 1944. All’approssimarsi del 25 aprile ci portavano a celebrarne la memoria. Quello che risultava convincente non era la retorica antifascista, ma la storia di sacrificio incarnata da Di Vona che i nostri vecchi ci raccontavano e, soprattutto, il loro volto commosso al suo ricordo. Un presente, insomma.
La Chiesa cattolica è una delle più gelose custodi della propria storia, del proprio passato. Non esiste un edificio sacro che non sia intestato ad un santo o un altare che non ne abbia una reliquia; le loro vicende sono continuamente raccontate e celebrate nell’anno liturgico. Ma è solo la partecipazione presente a quello che essi hanno vissuto a renderne interessante la memoria. Se così non fosse, saremmo cultori di cose morte, necrofili.
La domanda è, dunque, cosa resta vivo di Pisacane?
20 maggio 2009
Due re, due regine
Eccoci al dunque, dopo che Wladimiro Guadagno in arte Luxuria l'ex vincitore/vincitrice del Grande Fratello si è lanciata/o in una campagna per far conoscere la cultura del "gender", sì proprio così, sembra che qualcuno le/gli ha proposto di scrivere favole per bambini e lei/lui non si è fatta/o pregare due volte, è diventata/o scrittrice/scrittore, affermando in un recente dibattito in tv in cui si parlava di matrimoni: ne vedrete delle belle, lo sapete che anche Pinocchio è gay?
Su quest'onda di inculturazione gender ecco che a Genova si raccontano a "quattro gattini" fiabe da Gay Pride in cui il protagonista è un principe senza pisellino.
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Tratto da [Tempi] 19 maggio 2009
Per gli organizzatori l’obiettivo era «educare i bambini all’esistenza di diverse tipologie di famiglie. Queste favole puntano su un racconto omoaffettivo, resta il sentimento positivo, solo che a volersi bene sono i protagonisti dello stesso sesso. Non facciamo propaganda, ai bambini insegnamo solo che l’importante non è discriminare le persone in base al colore della pelle, o al sentimento religioso, o alle preferenze sessuali». Così a Genova – con il patrocinio del Comune e della Regione – si è svolto il laboratorio “Due re, due regine”, a cura degli organizzatori del Gay Pride. L’invito era rivolto a tutte le scuole genovesi e i bambini avrebbero dovuto raccontare una loro favola, liberi di esprimersi come meglio avrebbero voluto, a patto che i protagonisti della fiaba fossero lui&lui o lei&lei. A patto che alla fine il principe risvegliasse con un bacio un altro principe, o che la principessa salvasse dalle grinfie del drago un’altra principessa. A proposito di draghi, curiosamente nei panni del cattivo c’era la mefistotelica figura della “moglie”, arpia da mettere sottoterra con un bel colpo di bacchetta magica. Simpatica anche la figura del “principe senza pisellino”, un personaggio nuovo, in effetti, che nessun Perrault o fratello Grimm s’è mai premurato di raccontare. Il miglior commento all’iniziativa è un numero: 4. Tanti erano i bambini che hanno ascoltato le fiabe. Tutti gli altri hanno preferito andare al parco con mamma&papà o papà&mamma.
Su quest'onda di inculturazione gender ecco che a Genova si raccontano a "quattro gattini" fiabe da Gay Pride in cui il protagonista è un principe senza pisellino.
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Tratto da [Tempi] 19 maggio 2009
Per gli organizzatori l’obiettivo era «educare i bambini all’esistenza di diverse tipologie di famiglie. Queste favole puntano su un racconto omoaffettivo, resta il sentimento positivo, solo che a volersi bene sono i protagonisti dello stesso sesso. Non facciamo propaganda, ai bambini insegnamo solo che l’importante non è discriminare le persone in base al colore della pelle, o al sentimento religioso, o alle preferenze sessuali». Così a Genova – con il patrocinio del Comune e della Regione – si è svolto il laboratorio “Due re, due regine”, a cura degli organizzatori del Gay Pride. L’invito era rivolto a tutte le scuole genovesi e i bambini avrebbero dovuto raccontare una loro favola, liberi di esprimersi come meglio avrebbero voluto, a patto che i protagonisti della fiaba fossero lui&lui o lei&lei. A patto che alla fine il principe risvegliasse con un bacio un altro principe, o che la principessa salvasse dalle grinfie del drago un’altra principessa. A proposito di draghi, curiosamente nei panni del cattivo c’era la mefistotelica figura della “moglie”, arpia da mettere sottoterra con un bel colpo di bacchetta magica. Simpatica anche la figura del “principe senza pisellino”, un personaggio nuovo, in effetti, che nessun Perrault o fratello Grimm s’è mai premurato di raccontare. Il miglior commento all’iniziativa è un numero: 4. Tanti erano i bambini che hanno ascoltato le fiabe. Tutti gli altri hanno preferito andare al parco con mamma&papà o papà&mamma.
14 maggio 2009
Lasciarsi riempire di stupore
Pensavo di essere una mosca bianca, troppo sentimentale o troppo infantile anche se già nonna, insomma una che fa esattamente ciò che Marina Corradi racconta nel suo articolo: si stupisce per un piccolo fiore che spunta sull’asfalto o delle nuove foglie germogliate sulle siepi e si sofferma a guardar fuori dalla finestra, anche adesso che non va più a scuola ma lavora otto ore al giorno davanti ad un PC. Grazie, grazie e ancora grazie perché questo per me non è mai stato un male di vivere, ma un grazie a chi mi fa amare e fa tutte le cose che la realtà richiama.
Lasciarsi riempire di stupore di Marina Corradi
tratto da Tempi 12 maggio 2009
«Chi mi ha insegnato a non perdere tempo, così che se mi fermo a guardare una rosa tra le sbarre di un cancello mi rimprovero: non c’è tempo, andiamo? Quale ansia di laboriosità calvinista mi ha trasmesso la città dove sono nata?
In questi giorni di primo caldo e di primavera esplosiva mentre cammino per Milano intenta nel pensiero delle cose che ho da fare, mi scappa lo sguardo sul verde brillante, come neonato, delle siepi, o sull’aprirsi esitante delle rose nei cortili. L’odore dell’erba appena tagliata mi inebria, e mi incanto, a un semaforo, a contemplare il rosso fiamma dei papaveri disordinatamente spuntati fra i binari. C’è come questa interferenza nel corso dei quotidiani doverosi pensieri – banca, dentista, bollette – questa interferenza insistente che nelle mattine di maggio si insinua nell’ordine delle consuete incombenze, e mi distrae. Perché mi verrebbe da fermarmi davanti ai gelsomini fioriti e da annusarne il profumo per non poterlo più dimenticare; mi verrebbe da guardare ad uno ad uno i fiori delle bancarelle del mercato, giacché di ognuno la forma, e il colore, mi stupisce. Ma passo oltre: via, mi dico, hai tante cose a cui pensare.
Ma ho letto la catechesi del Papa del mercoledì 6 maggio, che cita san Giovanni Damasceno: «Bisogna lasciarsi riempire di stupore (thaumazein) da tutte le opere della provvidenza, tutte lodarle e tutte accettarle, superando la tentazione di individuare in esse aspetti che a molti sembrano ingiusti o iniqui e ammettendo invece che il progetto di Dio va al di là della capacità conoscitiva e comprensiva dell’uomo». Commenta Benedetto XVI: «Già Platone diceva che tutta la filosofia comincia con lo stupore. Anche la nostra fede comincia con lo stupore della creazione, della bellezza di Dio che si fa visibile».
Bisogna, dunque, «lasciarsi riempire di stupore». Detto così, sembra il primo umano dovere. Ma allora perché, chi mi ha insegnato a non perdere tempo, a non distrarmi, così che se mi fermo a guardare una rosa tra le sbarre di un cancello mi rimprovero: via, non c’è tempo, andiamo? Quale ansia di laboriosità calvinista mi ha trasmesso questa città dove sono nata, e come mai solo ora intuisco che è importante «lasciarsi riempire di stupore»? (Stupore, ecco, per la vite del Canada che di nuovo germoglia e si arrampica nell’angolo più buio del cortile).
Oppure è stato, in questa stessa bellezza, l’ombra del dolore a scandalizzarmi, a non lasciarmi vedere? Sul diario del ginnasio avevo copiato una poesia di Montale. La so ancora: «Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’accartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato». È stato lo scandalo del dolore e della morte a tenermi lontana dallo stupore? («Superare la tentazione di individuare aspetti che a molti sembrano iniqui o ingiusti»).
Certo non ho onorato questo compito fondante, di stare davanti alla realtà con occhi spalancati e grati. Quando per un momento tuttavia mi meraviglia la margherita che nasce in una crepa dell’asfalto, mi sgrido, come un bambino che a scuola guardi fuori dalla finestra, anziché alla lavagna. Ma la lavagna vera è questa mattina fulgente di maggio, in cui la vita sorge da ogni fessura.
Imparare a lasciarsi riempire di stupore. Ogni foglia, ogni profumo, come un segno di gesso su una lavagna. La formula è immensa, infinita, incomprensibile. Ma non occorre comprenderla. Basterebbe contemplarla. Basterebbe, pur senza capirla, docilmente amarla.»
"E tu da dove sbuchi?"
foto di Annalisa V.
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Lasciarsi riempire di stupore di Marina Corradi
tratto da Tempi 12 maggio 2009
«Chi mi ha insegnato a non perdere tempo, così che se mi fermo a guardare una rosa tra le sbarre di un cancello mi rimprovero: non c’è tempo, andiamo? Quale ansia di laboriosità calvinista mi ha trasmesso la città dove sono nata?
In questi giorni di primo caldo e di primavera esplosiva mentre cammino per Milano intenta nel pensiero delle cose che ho da fare, mi scappa lo sguardo sul verde brillante, come neonato, delle siepi, o sull’aprirsi esitante delle rose nei cortili. L’odore dell’erba appena tagliata mi inebria, e mi incanto, a un semaforo, a contemplare il rosso fiamma dei papaveri disordinatamente spuntati fra i binari. C’è come questa interferenza nel corso dei quotidiani doverosi pensieri – banca, dentista, bollette – questa interferenza insistente che nelle mattine di maggio si insinua nell’ordine delle consuete incombenze, e mi distrae. Perché mi verrebbe da fermarmi davanti ai gelsomini fioriti e da annusarne il profumo per non poterlo più dimenticare; mi verrebbe da guardare ad uno ad uno i fiori delle bancarelle del mercato, giacché di ognuno la forma, e il colore, mi stupisce. Ma passo oltre: via, mi dico, hai tante cose a cui pensare.
Ma ho letto la catechesi del Papa del mercoledì 6 maggio, che cita san Giovanni Damasceno: «Bisogna lasciarsi riempire di stupore (thaumazein) da tutte le opere della provvidenza, tutte lodarle e tutte accettarle, superando la tentazione di individuare in esse aspetti che a molti sembrano ingiusti o iniqui e ammettendo invece che il progetto di Dio va al di là della capacità conoscitiva e comprensiva dell’uomo». Commenta Benedetto XVI: «Già Platone diceva che tutta la filosofia comincia con lo stupore. Anche la nostra fede comincia con lo stupore della creazione, della bellezza di Dio che si fa visibile».
Bisogna, dunque, «lasciarsi riempire di stupore». Detto così, sembra il primo umano dovere. Ma allora perché, chi mi ha insegnato a non perdere tempo, a non distrarmi, così che se mi fermo a guardare una rosa tra le sbarre di un cancello mi rimprovero: via, non c’è tempo, andiamo? Quale ansia di laboriosità calvinista mi ha trasmesso questa città dove sono nata, e come mai solo ora intuisco che è importante «lasciarsi riempire di stupore»? (Stupore, ecco, per la vite del Canada che di nuovo germoglia e si arrampica nell’angolo più buio del cortile).
Oppure è stato, in questa stessa bellezza, l’ombra del dolore a scandalizzarmi, a non lasciarmi vedere? Sul diario del ginnasio avevo copiato una poesia di Montale. La so ancora: «Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’accartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato». È stato lo scandalo del dolore e della morte a tenermi lontana dallo stupore? («Superare la tentazione di individuare aspetti che a molti sembrano iniqui o ingiusti»).
Certo non ho onorato questo compito fondante, di stare davanti alla realtà con occhi spalancati e grati. Quando per un momento tuttavia mi meraviglia la margherita che nasce in una crepa dell’asfalto, mi sgrido, come un bambino che a scuola guardi fuori dalla finestra, anziché alla lavagna. Ma la lavagna vera è questa mattina fulgente di maggio, in cui la vita sorge da ogni fessura.
Imparare a lasciarsi riempire di stupore. Ogni foglia, ogni profumo, come un segno di gesso su una lavagna. La formula è immensa, infinita, incomprensibile. Ma non occorre comprenderla. Basterebbe contemplarla. Basterebbe, pur senza capirla, docilmente amarla.»
18 aprile 2009
Vuoi fare la carità? Prima chiedi il permesso e paga le tasse!
Sono rimasta molto colpita nel leggere questa notizia.
In molti casi ho sentito dire che la burocrazia sfiora l'assurdo, ebbene, questo penso sia uno tra gli esempi emblematici di come lo Stato non solo non sostiene chi è nel bisogno, ma mette i bastoni tra le ruote a chi vuol far del bene a sue spese.
Ma le leggi non sono nate per vivere nel giusto regolamentando e normando con il solo fine di aiutarci nella nostra convivenza quotidiana?
A quanto pare non è così, la Giustizia con la "G" maiuscola sembra funzionare come uno spremiagrumi, vedi il caso di Eluana che per legge ne è stata decretata la morte togliendole acqua e cibo, o come in questo caso, dove anche un gesto di generosità viene tassato. Il post forse dovevo titolarlo con "date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio".
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Multato il ristoratore che da il bollito a 1 euro.
di Andrea Rossi tratto da [lastampa.it] 16 aprile 09
Il cartello giallo è ancora piazzato in corso Belgio. Compare ogni mattina e sparisce ogni sera quando il quartiere se ne va a dormire, il ristorante chiude e non c’è più nessuno che abbia bisogno di mangiare. Il signor Mario sposta l’insegna nell’ingresso del suo ristorante, abbassa la serranda, chiude tutto e gli scappa un sorriso amaro. «Ancora sessanta giorni». E poi? «Se le cose non cambiano, non lo espongo più e la chiudiamo qui».
La chiudiamo qui perché al signor Mario hanno chiesto di pagare per fare beneficenza. Meglio, l’hanno multato perché dava una mano a chi è in difficoltà senza aver chiesto il permesso. E soprattutto senza aver versato la tassa per ottenere l’autorizzazione a pubblicizzare la sua iniziativa.
E poiché che la bacheca che segnala il bollito misto a un euro per chi ha la pensione minima occupa una fetta di suolo pubblico, non pagando il signor Mario ha violato la legge. E adesso deve pagare una multa di quasi 400 euro.
Nella Torino con l’acqua alla gola, i posti di lavoro che vanno in fumo, le pensioni che non bastano mai e le nuove povertà che s’affacciano, c’è un ristoratore che a marzo dell’anno scorso - ben prima che la crisi esplodesse - s’era messo a regalare porzioni di bollito a chi non aveva di che campare. Per evitare che la legge si mettesse di traverso le vendeva al prezzo simbolico di un euro per due porzioni. E ogni sera dieci, quindici, anche venti persone - gente del quartiere e non solo, uomini e donne da 400 euro al mese di pensione - si mettevano in coda e ritiravano la loro parte.
Così per tredici mesi. «Finché un mattino, qualche giorno fa, è entrato un vigile. Mi ha detto che era arrivato un esposto scritto e avevano dovuto intervenire. E’ rimasto cinque minuti a compilare il verbale. Io lo guardavo negli occhi e capivo che non era colpa sua. Però è andata così».
E’ andata che l’hanno multato: 389 euro per aver esposto a pochi passi dal suo esercizio, sul marciapiede, una bacheca mobile per pubblicizzare non il ristorante, ma solo l’iniziativa: il «bollito misto solidale». E’ scritto proprio così, sul verbale: il signor Mario avrebbe agito «senza la prevista autorizzazione e senza aver corrisposto il relativo canone».
E adesso Mario Sasso, 63 anni, due ristoranti (uno, quello «incriminato», in via Cigliano, l’altro in collina) e un’impresa che si occupa di prodotti per l’edilizia, non sa a chi dire grazie.
Di sicuro non ai vigili. «Non potevano fare diversamente. Erano mortificati, ma avevano ricevuto un esposto scritto ed erano costretti a intervenire». Di più: come spiega l’assessore alla Polizia municipale Beppe Borgogno, i civich «hanno solo applicato un regolamento dell’ufficio Tributi».
Sulla carta non fa una piega. C’è una legge, qualcuno (cui certamente fa difetto il buon cuore) ha segnalato un’infrazione e chi di dovere ha provveduto. Solo che a volte la burocrazia fa a pugni con il buon senso. E stavolta ha strapazzato l’altruismo. «Ho sessanta giorni di tempo: se tolgo il cartello tanti penseranno che l’iniziativa s’è esaurita e non si presenteranno più. Ma, per tenerlo, devo pagare 389 euro. E non mi sembra giusto».
Fine della storia? Forse no. L’assessore Borgogno ieri si è messo al lavoro. Con il comandante dei vigili Famigli sta studiando una soluzione. Chissà che, per una volta, la burocrazia esca con le ossa rotte.
08 aprile 2009
Ritorna la Pasqua
Mons. Massimo Camisasca con una splendida riflessione ci introduce al Mistero Pasquale.
Ritorna la Pasqua. La Chiesa ci fa rivivere ogni anno tutti i misteri della vita di Cristo. Sa benissimo che noi abbiamo bisogno di molto tempo per entrare dentro i fatti, che siamo spesso distratti proprio di fronte alle cose più importanti, che siamo sopraffatti dai nostri pensieri, preoccupazioni, e anche dalle nostre passioni.
Per questo ritorna la Pasqua. Per aiutarci ad entrare in un avvenimento che in realtà non riguarda soltanto alcuni giorni dell’anno, ma tutta la nostra vita. Che cosa è la Pasqua? è la resurrezione di Gesù. I giorni della passione, infatti, conducono lì. Senza resurrezione la passione sarebbe stata soltanto l’altissimo e spropositato gesto di condivisione del nostro male, compiuta dall’uomo più buono della terra. è soltanto la resurrezione che illumina tutto di una luce nuova e assolutamente originale. Colui che è stato morto è ora vivo, e vive per sempre.
La resurrezione di Gesù inaugura dunque la sua contemporaneità ad ogni istante della nostra vita. Non siamo più soli. Anche le presenze degli uomini, che tante volte sembrano lasciare intatta la nostra solitudine, nella prospettiva della resurrezione acquistano una luce e una forza nuova. Perché il risorto è Gesù di Nazareth, che obbediente al Padre fino alla morte, e alla morte di croce, in grazia proprio di questa sua obbedienza, è stato restituito alla vita, alla vita che non finisce, perché è la vita di Dio.
Non siamo più soli nel mondo. Questo è il grande annuncio della Pasqua. Esso si manifesta dentro di noi innanzitutto come capacità di uno sguardo nuovo. In certe giornate sembra che tutto vada storto, che ci sia soltanto il male, che le gelosie e le rivalità degli altri non facciano altro che schiacciarci… Può anche essere così, qualche volta. Ma queste giornate nere sono spesso il frutto della nostra chiusura di fronte alla presenza operante di Dio. Non sappiamo più vedere i segni della sua azione. La Pasqua invece inaugura nella nostra vita una nuova capacità di vedere. Dobbiamo innanzitutto chiederci: perché queste persone accanto a me? Perché mio marito, mia moglie, i miei figli, i miei amici? Prendiamo sul serio l’ipotesi che siano stati messi al nostro fianco proprio da Dio per aiutarci a camminare verso di lui. E i doni che abbiamo ricevuto, li ricordiamo ancora? La vita, la fede, l’incontro con coloro che ci hanno permesso di crescere, di diventare adulti, per molti di noi l’incontro con don Giussani e con il Movimento, le occasioni che Dio ci ha dato per incontrarlo nei piccoli, nei poveri, nei più semplici, e infine in tutti coloro che in un modo o in un altro ci hanno provocato a rompere lo schermo dell’abitudine.
La vita è fatta di incontri. Anche questi giorni di passione e di luce ce lo hanno testimoniato. L’incontro con Gesù ha cambiato la vita di tanti. Pensiamo alla Veronica, al Cireneo, al ladrone pentito, al centurione. Ma anche a Barabba, a Pilato, Giuseppe d’Arimatea, e dopo la resurrezione, la Maddalena, Pietro, Giovanni, i discepoli di Emmaus.
L’incontro con Gesù non li ha lasciati più come prima. Grandi romanzieri di tutti i tempi hanno cercato di immaginare cosa sia successo loro. Sono nate le opere letterarie sulla Veronica, su Barabba, su Disma. Lo stesso può succedere a noi. Non certo di diventare protagonisti di un romanzo, ma qualcosa di molto più importante: di diventare protagonisti della storia di Gesù. Attraverso la resurrezione, attraverso il dono del suo spirito, Gesù lega a sé la nostra vita. Istante dopo istante, quello che viviamo non ha più soltanto il senso comune del susseguirsi dei momenti. è una vita per lui, donata a lui, è una domanda di conoscerlo, di vederlo, è una domanda che il nostro cuore sia cambiato per potere amare gli altri come lui li ha amati. Lo ha scritto bene san Paolo in una lettera ai cristiani di Corinto: «Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e resuscitato per loro. Se uno è in Cristo, è una creatura nuova, le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove». (2Cor 5,15-17)
Nella foto: una formella della Via Crucis della cappella della casa di formazione a Roma. Foto di Elio e Stefano Ciol
26 marzo 2009
La lingua e la distruzione della coscienza
Ho appena terminato di leggere un libro di Papasogli sulla figura di Giuseppe Moscati, medico Santo.
Prepotentemente mi balza agli occhi il grande divario tra la professione medica ai tempi di Moscati e l’attuale. Non fraintendetemi, non sto parlando di tecnologia e tutte le innovazioni in campo diagnostico che permettono oggi al medico, una diagnosi sempre più precisa in grado di intervenire con successo nella cura del paziente. Allora Moscati non lasciava nulla al caso, la sua grande conoscenza gli era indispensabile, ma per lui era nulla se non considerava ogni cosa del paziente, tutto di lui voleva conoscere per formulare la diagnosi e la cura, e sovente, andava oltre curando anche lo spirito.
Certamente Moscati ancor prima di essere medico era uomo, uomo vero che tutto metteva nelle mani di Dio.
Il divario mi è ancor più evidente leggendo l’articolo di Francesco D’Agostino “Strozzata da un eufemismo la figura classica del medico” pubblicato su Avvenire il 24 marzo.
Eufemismo (dal greco eu, bene, e phème, quanto detto) è una figura retorica con la quale si attenua l'asprezza di un concetto, usando una parola più mite più discreta.
Sembra secondo alcuni che questo avvenga per scrupoli religiosi o morali o per rispetto delle convenienze sociali. Ecco alcuni di questi esempi di significato attenuato di una parola troppo cruda: 'Non è più con noi', 'Se n'è andato' per 'È morto', 'male incurabile' per 'tumore'.
D’Agostino nel suo articolo parla di alcuni eufemismi abbastanza innocui, per poi farci riflettere con grande maestria su come alcuni termini vengono usati non solo per nascondere, ma anche per deformarne la percezione. Le armi della distruzione della coscienza dell’uomo diventan sempre più sottili.
************
Stralcio dell'articolo di D'Agostino:
«… Il primo esempio eclatante lo si è avuto ormai parecchi anni fa, quando al posto del correttissimo termine 'divorzio' nel nostro sistema giuridico è entrata l’espressione 'scioglimento del matrimonio'.
Quando poi si è voluto legalizzare l’aborto, si è fatto ricorso a 'interruzione volontaria della gravidanza': l’acronimo IVG è diventato di uso comune e ha di fatto garantito che la sostanza del processo di riferimento (cioè appunto l’aborto) fosse percepita come del tutto burocratica e sanitaria. Ben più di recente, un’espressione assolutamente corretta come 'fecondazione artificiale' è stata messa da parte e genialmente sostituita da PMA, 'procreazione medicalmente assistita': come se l’intervento del medico nel processo fosse di mero supporto all’atto procreativo e non (almeno il più delle volte) artificialmente sostitutivo nei suoi confronti!
Su questa scia, nella scorsa legislatura sono stati presentati disegni di legge per dare riconoscimento giuridico all’IVS, cioè alla 'Interruzione volontaria della sopravvivenza': quel processo che alcuni bioeticisti erano ormai soliti chiamare 'suicidio assistito', ma che indubbiamente è apparso più gentile definire attraverso un nuovo acronimo, oltretutto ulteriormente legittimato dalla sua contiguità, non solo fonetica, con l’IVG.
Ci si poteva fermare qui? Naturalmente no, dato che la fantasia lessicale è inesauribile e la passione per gli eufemismi sembra incontenibile. Ecco quindi l’avvento nei Paesi di lingua anglosassone dell’espressione MAD, cioè 'Medically Assisted Death', morte medicalmente assistita. Un eufemismo meno ridicolo di quelli che abbiamo citato, ma ben più tragico e proprio perciò rivelativo più dei precedenti.
Nella MMA (per riformulare l’acronimo secondo gli usi linguistici italiani) emerge infatti con chiarezza che ciò che si pretende di ottenere, cioè né più né meno che la morte, deve realizzarsi essenzialmente grazie all’intervento 'assistenziale' di un medico. Situazioni tragiche e estreme, malattie terminali, sofferenze, pietà, desiderio di autodeterminarsi, insomma tutto l’insieme dei concetti che supportano l’esperienza dell’eutanasia nell’immaginario collettivo non compaiono in quest’espressione, perché non devono comparirvi: resta sola, a giganteggiare, la figura del medico, come quella di chi interpreta riassuntivamente la propria funzione come quella di chi è chiamato ad assistere, cioè a 'produrre' la morte.
Per chi usa questo eufemismo, non può che seguirne inevitabilmente l’idea che sia legittimo ricorrere alla MMA in tutta una varietà si situazioni: anche quando la malattia non sia terminale, anche quando non dia sofferenze, anche nelle situazioni in cui non ci siano incontenibili pulsioni pietose ed anche - perché no? - quando manchi la stessa autodeterminazione (basterà da parte del medico presumerla!). L’essenziale è che al centro della vicenda ci sia il medico, il signore della vita e della morte, colui che è in grado di usare il 'farmaco' nella sua duplice valenza di medicinale e di veleno. Così, dopo duemilacinquecento anni, umiliata da un eufemismo, si sta avviando al suo tramonto – se non saremo in grado di reagire – la tradizione della medicina ippocratica.»
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18 marzo 2009
Spagna: Le specie animali minacciate di estinzione hanno maggiore protezione giuridica del nascituro
Carissimi lettori vi pongo una domanda:
"Se numerose specie animali beneficiano di una vasta protezione, compresa quella penale, perché proteggere di meno la vita degli esseri umani che stanno per nascere?".
Il paradosso è ben sintetizzato con un bambino e una lince iberica che campeggiano vicini sul manifesto pubblicitario che dà il via alla campagna di informazione promossa dalla Conferenza episcopale spagnola in vista della "Giornata per la vita" che si celebrerà mercoledì 25 marzo. Sul felino appare la scritta “protetto”, sopra il bambino la domanda “E io?”. Sotto entrambi lo slogan: “Proteggi la mia vita!”.
Sconvolgente l’affermazione dei vescovi che compare in una nota intitolata "La vera giustizia: proteggere la vita di chi sta per nascere e aiutare le madri", i presuli affermano come "nella nostra società va prendendo piede un'enorme deformazione della verità riguardo all'aborto, che è presentato come una scelta giusta della madre volta a risolvere un grave problema che la tocca in maniera drammatica". Arrivando addirittura "a includere l'aborto fra i cosiddetti "diritti alla salute riproduttiva".
Ma ci pensate, l’aborto diritto alla salute riproduttiva, mi vengono i brividi, come può definirsi giustizia questo? A quale diritto ci riferiamo? E’ accertato, l’aborto provoca grande sofferenze, per quanti tentativi si facciano di dimenticare, rimarrano le cicatrici, segni che non si cancelleranno dal cuore di ogni madre. Questo è ciò che anche le più sfegatate femministe pro-aborto hanno, con tremore, il coraggio di ammettere, per poi trovare subito dopo le giustificazioni al gesto.
Il vero aiuto, "la giustizia autentica passa attraverso la difesa del nascituro e l'aiuto integrale alla donna affinché possa superare le difficoltà e dare alla luce suo figlio". Tutto ciò è in contrasto con una sempre più grande sensibilità che sta emergendo nella nostra società sulla necessità di proteggere gli embrioni delle diverse specie animali.
Recentemente sono state varate leggi che tutelano la vita di queste specie animali nelle loro prime fasi di sviluppo, ricorderete senz’altro il “Progetto Grandi Primati”, paradossalmente all’opposto accade che si disattende alla vita della persona umana che sta per nascere dove prevale sempre di più una mancanza di protezione. Il Codice penale spagnolo arriva a posizioni che rasentano l’assurdo a mio parere, sono difatti previste pene, incluso il carcere, per coloro che attentano contro la fauna e la flora protetta, ma il culmine sta nel fatto che si ribadisce che anche l'aborto è un delitto ma "che spetta al giudice, a seconda delle circostanze del caso, decidere la pena corrispondente". L’attuale normativa spagnola prevede che l'aborto non è considerato reato quando si interrompe la gravidanza nelle prime dodici settimane, nel caso di violenza sessuale, fino alle ventidue settimane se ci sono rischi di malformazione del feto e, sempre, se sussistono pericoli per la salute fisica e psichica della madre.
La difesa del valore assoluto del diritto alla vita, "che inizia dal momento della fecondazione", è l’obiettivo del Manifesto dei 300 o Dichiarazione di Madrid – presentato il 17 marzo 2009 e firmato da più di trecento fra scienziati, docenti e intellettuali impegnati nei campi della bio-medicina, delle scienze umanistiche e delle scienze sociali che nel documento si schierano con la Chiesa Cattolica e contro l’aborto libero.
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Vita
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